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blogSe hai un blog devi necessariamente tenerlo aggiornato con pubblicazioni a cadenza regolare? Deve assomigliare di più a un giornale, o a un social network, oppure la continuità non è rilevante?

E’ una domanda che mi pongo perché tendo ad adottare la soluzione della discontinuità, ma in essa trovo alcuni elementi negativi. Se uno per caso, ad esempio, capita sul mio blog e vede che l’ultimo articolo è datato un anno fa, considererà questa pagina come affidabile? Al contrario, se l’ultimo post della pagina non è così interessante, ma è breve, veloce, ed esprime idee o semplici domande di qualche interesse, non sarà spinto a proseguire, a ritroso, nella lettura?

Torno a #scritturebrevi e ci associo, ancora una volta, il concetto di #segmenti. La scrittura del web, soprattutto dopo l’evoluzione dei social, possiede questa potenzialità in più: anche una nota veloce ha dignità di pubblicazione e, se non trova posto su facebook e su twitter perché richiede un ambiente più “privato”, che presupponga una precisa scelta di lettura, probabilmente il luogo ideale può essere il blog, che, quindi, è uno strumento di comunicazione e condivisione tuttaltro che superato.

Foto su: http://lullabellz.com/blog/oh-my-blog-hello-were-new-here/

asmaeQualche settimana fa ho accettato l’invito dei rappresentanti degli studenti del liceo scientifico Galilei di Ancona a palare della libertà d’espressione in assemblea di istituto. Erano da poco passati i fatti tragici di Charlie Hebdo e Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le ragazze rapite in Siria, erano appena state liberate dalla loro prigionia. Sono arrivata in quella sala gremita di ragazzi, dunque, dopo una settimana di odio mediatico mai vissuta in precedenza: islamofobia mischiata a razzismo e ai peggiori insulti beceri e maschilisti contro le due ragazze. Potrei raccontare molte cose di quella mattinata passata con gli studenti e con la collega giornalista Asmae Dachan. Asmae è una giovane donna di origine siriana, la vedete nella foto accanto a me. E’ nata in Italia e parla e scrive l’italiano come molti di noi professionisti della scrittura vorrebbero fare. Ha un blog in cui quasi quotidianamente racconta del dramma siriano, una tragedia umanitaria le cui dimensioni immani per lo più sfuggono alla coscienza pubblica della nostra cultura e della nostra informazione. Un blog sul quale invito a soffermarsi, perché è uno di quelli che si strutturano per esprimere punti di vista significativi e documentati. Lo segnalo perché il web è il posto in cui le idee si nascondono con una facilità maggiore di quanto riescano ad evidenziarsi, travolte dalla mole di informazioni che circolano giustapposte. Non c’è prima pagina nel web, non c’è gerarchia delle notizie. E dunque, spesso, chi pubblica risponde all’imperativo della visibità offrendo la sensazione e l’emozione a tutti i costi, piuttosto che l’analisi pacata dei problemi e della ragione dei fatti. Non è così per Asmae.

La domenica precedente all’incontro del liceo ero andata alla Moschea della Fratellanza di Ancona, che aveva organizzato un’iniziativa a porte aperte, e in entrambe le occasioni il messaggio forte e chiaro che Asmae ha lanciato è stato che l’islam non c’entra niente con l’Isis. Anche per l’islam, come per il cristianesimo, chi uccide in nome della religione è un bestemmiatore. In moschea, poi, Asmae aveva espresso un concetto molto interessante: noi siamo cittadini e al tempo stesso ospiti.

Lo trovo importante, perché presuppone un concetto moderno e complesso di uguaglianza e di convivenza, che marca anche le differenze, quindi le distanze, e attribuisce loro un ruolo preciso. Credo che la platea giusta per prendere coscienza di ciò sia proprio quella dei più giovani, dove la differenza non è percepita in modo negativo, nonostante le spinte uniformanti dell’età, che rispondono al bisogno psicologico di sentirsi, per la prima volta  nella vita, parte di un tutto che va al di là del nucleo ristretto della famiglia. Ricordo, ad esempio, che quando aspettavo il secondo figlio la mia primogenita mi propose di chiamarlo con il nome albanese di un suo compagno della scuola materna, un nome che a me suonova singolare, ma che lei percepiva come normale perché faceva parte del suo quotidiano. E così, quando alla Moschea della Fratellanza di Ancona ha preso la parola una giovane di quindici o sedici anni, ho distolto per un attimo lo sguardo dalla sua figura e, dimenticando che indossava il velo, ho sentito le parole di una ragazza che avrebbe potuto tranquillamente essere mia figlia o una sua amica.

Poi, prima di cominciare l’incontro con i ragazzi del Galilei, Asmae mi ha detto una cosa che mi ha toccato il cuore: “Mia sorella è sepolta qui, al cimitero delle Tavernelle”. E che cos’è la terra alla quale senti di appartenere se non quella in cui, alla fine, seppellisci i tuoi cari? Sono la terra e il quotidiano i segni più profondi della nostra uguaglianza. Ma lo è anche la memoria. Quasi ognuno di noi, ad esempio, ha memoria di nonni e parenti emigrati in terre straniere, dove la gente del posto spesso non li voleva, o li considerava “minori”, perché diversi. Visti da qui, però, questi antenati sono i nostri eroi, quelli che hanno permesso alle nostre famiglie di essere oggi ciò che sono, di non estinguersi quando erano troppo povere, di trovare una speranza di rinascita dopo guerre che ci avevano decimato nei corpi e nello spirito.

Poi ci sono le diversità, che non sempre e non immediatamente portano ricchezza o valore aggiunto, perché a volte sono ingombranti, spesso incomprensibili le une alle altre. E c’è anche di più. Quando succedono fatti come l’attentato a Charlie Hebdo, o le decapitazioni dell’Isis, il cui portato simbolico arriva addirittura a superare la già immane tragicità dell’accaduto in sé, la logica del terrore prende il sopravvento sulla ragione ed è facile che il diverso sia identificato con il colpevole. Non è un caso se nelle ultime settimane sui social network, che sono lo specchio dei nostri umori collettivi, è esplosa la miccia di innumerevoli fobie e intolleranze, razziali, religiose, ideologiche. Mai nella storia come in queste settimane la parola scritta, che è, per sua natura, più pensata e moderata di quella parlata, si è sbilanciata verso l’eccesso con un impatto sociale così ampio. La strategia che ci ha vinto è stata quella del clamore, che ha suscitato terrore. Credo sia fisiologico, di fronte a eventi di tale portata. E’ stato come prendere una bastonata in faccia. Dopo c’è un momento in cui sei stordito. Poi però ti devi curare, contare i danni, rimediarli fin dove è possibile e riprendere a vivere. Uscendo dalla metafora, il rischio è che, se non riprendiamo a usare la ragione dopo l’emozione, siamo pronti per la dittatura, che non sarà necessariamente di un regime, ma che sicuramente, come è sua natura, avvantaggerà pochi a scapito dei più. E certamente ci toglierà la libertà, prima quella di esprimerci, poi anche quella di pensare e quindi di vivere come vorremmo.

Nel vedere tanti ragazzi riuniti in assemblea, giovani abituati alla velocità del web, alla sintesi estrema, all’on-off del loro essere nativi digitali, all’applauso facile del “mi piace”-“non mi piace”- “condividi”, mi si è aperto il cuore quando ho capito che, tenendo alto il livello del dibattito, arrivavano domande e considerazioni sensate e di senso, che forse quando io avevo la loro età non avrei mai fatto. Li vedo un po’ persi, ogni giorno li scopro fragili, ma riconosco in loro competenze più profonde di quelle che avevamo noi e un senso civico che dovrebbe fare invidia agli adulti. Sono, ad esempio, ragazzi che amano, curano e promuovono la loro scuola, che gestiscono i loro spazi con serietà e passione, sia nei momenti impegnati, come l’incontro a cui ho partecipato io, sia in quelli più leggeri e giocosi.  In quell’assemblea mi è sembrato di vedere giovani che facevano esperimenti di “res publica”. Credo quindi di avere sulle spalle, insieme con i miei coetanei, una bella serie di responsabilità: preservare quanto è rimasto in termini di democrazia e di libertà, tornare a curare la cultura e smetterla di dire con i fatti, oltre che con le parole, che l’impegno e lo studio non sono importanti, praticare il rispetto e coltivare la bellezza, nel privato come nel pubblico, non abbandonare la memoria di ciò che siamo stati. Dovremo consegnare loro tutto questo. Pensiamo a salvare il salvabile, perché c’è qualcosa che mi dice che ne faranno un uso migliore del nostro.

Novità dell’ultimo anno: i social media entrano definitivamente a far parte del panorama comunicativo degli enti pubblici. Se, con l’affermarsi di Facebook, cinque o sei anni fa si discuteva dell’opportunità o meno di vietarne l’uso ai dipendenti in orario di lavoro, oggi, vista anche la presenza massiccia e generalizzata del popolo del web (e non solo) sulle diverse piattaforme, il dibattito è stato ampiamente superato. A questo punto comincia a delinearsi in modo sempre più netto la riflessione sull’efficacia della comunicazione social nel rapporto con il cittadino e, di pari passo, si sviluppa in quantità e qualità l’uso strutturato dei social nella Pa.

Tra le prime raccolte e interpretazioni di dati italiani sul tema, risultano interessanti il rapporto #TwitterPA 2012 curato da Giovanni Arata, e lo studio sulle Aziende di Promozione Turistica regionali condotto da Vincenzo Cosenza, Social Media Strategist e responsabile della sede romana di BlogMeter, società di analisi delle conversazioni in rete e delle interazioni sui social media.  

L’analisi, come spiega lo stesso Cosenza su Agenda Digitale in un post datato 11 dicembre 2012, “ha preso in considerazione oltre 920.000 interazioni avvenute sulle pagine Facebook e sui profili Twitter delle APT, al fine di individuare le migliori pratiche e i ritardi nella comprensione delle nuove meccaniche di comunicazione. Tre le risultanze principali:

–       il turismo sembra essere un asset di comunicazione molto potente ed efficace per la costruzione della brand identity regionale. Mentre, mediamente, le pagine ufficiali delle regioni risultano poco appealing per il cittadino, quelle gestite dalle APT riescono a generare più coinvolgimento;

–       le APT che riescono a stabilire un legame continuativo con il cittadino/visitatore sono quelle che hanno capito che la gestione dei social media non s’improvvisa, ma necessita di un investimento in risorse umane e finanziarie (spesso hanno un team dedicato e una strategia di comunicazione integrata). Ciò che ancora manca, anche nelle realtà più evolute, è la cultura della misurazione dei risultati, del tracciamento delle attività di comunicazione social;

–       L’uso dei social media è ancora molto promozionale e poco attento al supporto dell’utente. Su Facebook il tasso di risposta ai fan che postano in bacheca è basso. Ciò indica che si stanno perdendo delle grosse opportunità in termini di “Social CRM” ossia di cura del cliente o del prospect nelle fasi pre e post esperienza turistica.  

Nel dettaglio su Facebook, il social network più frequentato dagli italiani (vedi Osservatorio Social Media), è presente l’80% delle Regioni. Sei mesi di osservazione hanno permesso di cogliere lo stadio di evoluzione attuale, riassumibile attraverso una mappa di posizionamento, basata su tre elementi: numero di fan, engagement totale sviluppato (like, commenti, condivisioni, post degli utenti in bacheca), post scritti dal brand.

Il quadrante dei leader è occupato da VisitTrentino, che si contraddistingue per la capacità di coinvolgere i membri della sua community (290.323 interazioni generate sulla pagina dai suoi 61.266 fan), VisitSicily e Tuscany, che invece spiccano per una base di fan molto ampia e comunque piuttosto attiva (rispettivamente, 133.240 e 126.812 fan). Il Trentino ha anche il primato in termini di rapporto tra engagement e base di fan, vale a dire che per ogni mille fan ottiene una media di 52 interazioni sulla pagina.

Mentre la Toscana è quella che riesce a scrivere i post più coinvolgenti per la propria community, in pratica ognuno di essi mediamente riesce a generare 486 interazioni (siano essi semplici “mi piace”, commenti, condivisioni, post spontanei).

Tra gli “Engagers” (quelli che riescono a coinvolgere molto, pur avendo pochi fan) spuntano VisitSardinia (95.737 interazioni totali) e Liguria (59.597 interazioni), mentre al contrario, Südtirol e Puglia Events (dedicato, però, solo agli eventi) hanno un’ampio bacino di fan (rispettivamente 61.157 e 73.172), ma devono ancora capire come stimolarli costantemente (non raggiungono infatti le 30.000 interazioni in un periodo di 6 mesi).

Su Twitter siamo ad uno stadio embrionale. Le APT non hanno trovato la chiave giusta per relazionarsi al proprio pubblico di riferimento. I numeri sono molto più modesti. Turismo Emilia Romagna si segnala per il suo attivismo (851 tweet in un mese) e la capacità di usare bene le grammatiche del social network. In ciò ripagata in termini di menzioni (1.331) e di impression totali (oltre 9 milioni).

Nel quadrante principale troviamo anche VisitTrentino, al secondo posto per menzioni ricevute, e MarcheTurismo, che nell’ultimo mese ha visto aumentare i suoi follower del 22%.

Tra le strategie di content management vincenti si segnalano la pubblicazione di foto evocative, la copertura di eventi, le comunicazioni di servizio, il coinvolgimento degli utenti nella co-gestione della pagina (lo fa VisitTrentino che invita i fan a gestire i contenuti della pagina Facebook per una settimana, adottando la loro immagine come foto profilo ufficiale).

In definitiva le Regioni italiane hanno compreso che l’esperienza turistica passa dalla rete. Ora si tratta di dar seguito a queste attività, che spesso nascono come “campagne” one shot.

E’ necessario impegnare più risorse nella creazione di gruppi di lavoro dedicati in grado non solo di gestire con creatività e continuità una presenza sui social media, ma anche di creare le risorse digitali multilingua cui rimandare. Sembra incredibile, ma la realtà è che molto spesso mancano pagine web, video, audioguide pensate per i visitatori stranieri.

Infine una presenza in rete non può fermarsi alla mera promozione, ma deve essere in grado di rispondere alle richieste dei cittadini/turisti. Oggi invece chi gestisce i social media non è l’URP e quindi non riesce a rispondere compiutamente a causa dei rigidi steccati organizzativi e culturali presenti”.

cristinaUna città ha la forma delle persone che la vivono. Io ne cerco alcune in particolare: cerco la foresta che cresce, perché mi sono stancata del rumore degli alberi che cadono. Così ho pensato a Cristina. Mi ricordo di lei ai tempi di Buon Gusto Marche, la rivista culturale alla quale abbiamo collaborato entrambe per un breve periodo. Ci siamo frequentate poco, però la ricordo per il sorriso e per il suo silenzio competente, virtù di pochi. L’ho ritrovata in rete, su Facebook, impegnata con la petizione per la rimozione della statua Violata.

Cristina Babino non ha ancora quarant’anni, ma ha all’attivo viaggi, lavori ed esperienze culturali che molti non fanno in una vita intera. Se volete saperne di più, guardate qui, qui e qui.

“Sono nata ad Ancona – racconta – ho compiuto studi linguistici alle scuole superiori e mi sono laureata al DAMS di Bologna. Mi interessano le arti, in particolare l’arte visiva, la scrittura e la traduzione”. Dopo la laurea è andata all’estero, “per necessità – dice – e per scelta: necessità di fare un’esperienza di lavoro seria e stabile, cosa che nella mia città non mi era stata possibile, e scelta di conoscere e vivere culture diverse, di aprire la mente a nuove esperienze. Non ho abbandonato la speranza di poter tornare, un giorno, ma almeno per i prossimi anni non ne vedo i presupposti purtroppo”. Così nasce il suo twit per Ancona, quello che chiedo a tutte le persone con cui mi confronto sulla città: “#twitAncona la mia casa a cui spero un giorno di tornare”.

“Nel 2005 – prosegue – stanca delle condizioni sempre precarie del lavoro, ho deciso (non con leggerezza) di trasferirmi in Inghilterra, a Bristol, dove per alcuni anni sono stata impiegata di una multinazionale. Quindi nel 2008, vista una possibilità che si era aperta per mio marito, ci siamo trasferiti in Francia, ad Antibes. Dopo la nascita di mia figlia ho cominciato ad occuparmi più stabilmente di traduzione, dall’inglese e dal francese. Attualmente sto traducendo per l’editore Vydia una raccolta del poeta americano John Taggart, e sarà il primo suo volume mai apparso in Italia”.

E a questo punto cosa resta di Ancona?: “E’ la mia città e sempre lo resterà. Poche persone, credo, restano attaccate alle proprie radici come quelle che se ne vanno. Amo i suoi scorci, la sua bellezza dissimulata e sorprendente, amo profondamente il suo mare (e se mi guardo indietro mi accorgo di essere sempre vissuta vicino al mare, nonostante tanto girovagare. Un motivo ci sarà!). Ogni volta che ne ho la possibilità mi adopero per far conoscere ai miei amici che vengono da fuori le ricchezze che la città custodisce. E tutti restano, immancabilmente, sorpresi ed entusiasti. Ad Ancona ci sono la mia famiglia, i miei amici e i miei parenti. Tengo anche molto a che mia figlia, che è nata in Francia, conosca i luoghi da cui veniamo. E nonostante il suo già spiccato accento francese, è bello sentirla pronunciare delle parole in anconetano dopo aver passato qualche giorno in città. E’ musica per le mie orecchie!”

E quando torni noti che Ancona è cambiata? “Da qualche anno a questa parte, ogni volta che torno, la trovo cambiata, e non in meglio: più sporca, degradata, specie in alcuni quartieri che mi sembrano ormai al limite della vivibilità, lasciata a se stessa. In via Torresi,solo per fare un esempio, vicino alla mia casa materna, trovo da tempo immemorabile ormai un muro crollato a ridosso del marciapiede. Sta puntellato malamente da anni, ed era così ancora poche settimane fa, quando sono ritornata. Alcuni cittadini per protesta hanno attaccato un lenzuolo con scritto “rivogliamo i marciapiedi”. Ecco, credo che questa, per i cittadini, sia una grande umiliazione. Dover protestare per riavere un marciapiede agibile che non costringa a scendere sulla carreggiata rischiando di essere investiti per percorrere la propria via. E mi chiedo come possa un’amministrazione non fare di tutto per mettere mano a certi problemi urgenti ed evidenti in tempi accettabili. Questo è solo un piccolo esempio, ma significativo, della situazione di generale abbandono e incuria in cui versa la città. Una situazione che poi si ripercuote inevitabilmente anche sulla vita sociale e culturale”.

Per questo motivo ti sei dedicata con così tanto impegno alla raccolta di firme nella petizione per la rimozione della statua Violata? “Quando ho saputo della notizia che ad Ancona si sarebbe eretto un monumento dedicato alle donne vittime di violenza sono rimasta positivamente colpita. Poi ho visto un video e delle immagini che ritraevano la statua e sono rimasta basita. Non potevo credere che quell’opera fosse stata scelta proprio come simbolo di un tema tanto drammatico, urgente e delicato. Al di là di qualsiasi giudizio estetico, che ciascuno può legittimamente formulare, penso che quella statua non faccia che riproporre l’immagine stereotipata della donna come semplice preda sessuale, resa ancor più accattivante dall’esibizione ad hoc delle sua nudità, riducendo la violenza di genere al solo stupro, quando le cronache ci indicano che il fenomeno è molto più complesso e articolato e si manifesta in una molteplicità di atti oppressivi della libertà e della dignità della donna, che quest’ opera, semplicemente, non riesce in alcun modo a cogliere e quindi a veicolare. La sua collocazione sulla rotatoria, oltretutto, non consente, neanche sforzandosi, la minima riflessione: sfrecciandoci davanti in mezzo al traffico cittadino dubito che qualcuno si senta chiamato in causa”.

“Il mio pensiero personale – prosegue Cristina – sarebbe rimasto tale se poi non mi fossi accorta che moltissime altre persone la pensavano come me. Quando sono arrivata sul gruppo facebook che chiedeva la rimozione della statua i partecipanti erano già quasi 900, cittadini anconetani e non. Poi mi sono confrontata con una donna che mi è molto cara, Francesca Baleani, una persona meravigliosa piena di forza e dignità che anni fa ha subito un atto di inaudita violenza da cui è riuscita miracolosamente a salvarsi, e ci siamo ritrovate a pensarla allo stesso modo, a provare le stesse sensazioni di rabbia e offesa per l’esito di questa iniziativa. Quindi ho deciso di avviare la petizione online per vedere quante persone effettivamente, oltre a commentare su facebook, erano disposte a mettere la firma per questa protesta, che non è assolutamente contro l’artista o la statua in sé (per la quale chiediamo un’altra sede, anche museale, quindi massimo del rispetto!), come abbiamo ripetuto fino allo sfinimento, ma contro questa statua come simbolo imposto sulla collettività e invece evidentemente non condiviso, neanche da tante donne vittime di violenza, che ci hanno personalmente ringraziato per aver avviato questa protesta”.

La risposta delle istituzioni? “Forse io vivo all’estero da troppi anni e mi stupisco per cose che in Italia vengono considerate “normali”, ma per l’esperienza che ho avuto all’estero non esiste che un cittadino, anche uno solo, si rivolga a un’istituzione o a un esponente politico senza ottenere alcuna risposta diretta, qualunque essa sia. E’ una questione di civiltà e spero che in Italia prima o poi le istituzioni e le classi dirigenti se ne accorgano. Quando ho avviato la petizione, non avrei mai pensato di mettere insieme più di qualche centinaio di firme. Non sono che una sconosciuta semplice cittadina del resto, per di più residente all’estero da anni. Senza dubbio le priorità per Ancona sono molte e vanno affrontate con urgenza, ma banalizzare un tema attuale e gravissimo come la violenza di genere e la sua rappresentazione simbolica, è una leggerezza fatale. In pochi giorni siamo arrivati a mille firme e oggi siamo a 2050: da Ancona, dalle Marche e da tutta Italia. Hanno firmato molti intellettuali,giornalisti, scrittori, artisti e soprattutto molte donne vittime di violenza, familiari di donne che sono decedute per mano violenta e una quindicina di associazioni e centri antiviolenza, professionisti che si battono quotidianamente contro questo terribile fenomeno e che sanno benissimo quali sono le priorità e gli interventi che esso richiede con urgenza”.

E ora cosa ti aspetti? “che la prossima amministrazione – se non le istituzioni che hanno promosso l’operazione Violata (cosa che sarebbe oltremodo auspicabile, visto il ruolo che sono chiamate a ricoprire) – si dimostri aperta al dialogo sulla questione e disponibile a trovare insieme una soluzione che sia il più possibile condivisa con la cittadinanza, e non più imposta. Se rapportarsi con le istituzioni locali è stato sin qui decisamente deludente, questa vicenda mi ha dato modo di conoscere, e in qualche caso riscoprire, molte persone di grande valore e sensibilità e che voglio ringraziare : Alessandra Carnaroli, che con me è promotrice della petizione e che conoscevo prima solo attraverso la sua scrittura, Luigi Socci, che si è dimostrato da subito molto attento alla questione, le creative Luna Margherita Cardilli e Ljudmilla Socci, e poi Emanuela Ghinaglia ed Elena Pascolini, che si sono adoperate molto per portare avanti la protesta. Cito qua solo le persone con cui ho avuto maggiore scambio, sapendo di fare torto (e me ne scuso!) a moltissime altre che ci hanno sostenuto a vario titolo. Ancona, nonostante sembri spesso una città sonnolenta e sconnessa, che si lascia vivere e negli ultimi anni quasi un po’ morire, ha delle grandi potenzialità e risorse da valorizzare (a livello culturale penso ad esempio alle belle rassegne organizzate alla Mole o il Festival La Punta della Lingua) e gran parte di queste passano anche per le tante persone capaci, competenti e impegnate, molte delle quali giovani, che vi risiedono. E’ un patrimonio da far fruttare e sono convinta che anche attraverso la possibilità di farle contribuire attivamente passi il futuro prossimo di Ancona.