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Intervento al corso di formazione Odg Marche

Grottammare – Teatro dell’Arancio – 29/05/2015

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blogSe hai un blog devi necessariamente tenerlo aggiornato con pubblicazioni a cadenza regolare? Deve assomigliare di più a un giornale, o a un social network, oppure la continuità non è rilevante?

E’ una domanda che mi pongo perché tendo ad adottare la soluzione della discontinuità, ma in essa trovo alcuni elementi negativi. Se uno per caso, ad esempio, capita sul mio blog e vede che l’ultimo articolo è datato un anno fa, considererà questa pagina come affidabile? Al contrario, se l’ultimo post della pagina non è così interessante, ma è breve, veloce, ed esprime idee o semplici domande di qualche interesse, non sarà spinto a proseguire, a ritroso, nella lettura?

Torno a #scritturebrevi e ci associo, ancora una volta, il concetto di #segmenti. La scrittura del web, soprattutto dopo l’evoluzione dei social, possiede questa potenzialità in più: anche una nota veloce ha dignità di pubblicazione e, se non trova posto su facebook e su twitter perché richiede un ambiente più “privato”, che presupponga una precisa scelta di lettura, probabilmente il luogo ideale può essere il blog, che, quindi, è uno strumento di comunicazione e condivisione tuttaltro che superato.

Foto su: http://lullabellz.com/blog/oh-my-blog-hello-were-new-here/

asmaeQualche settimana fa ho accettato l’invito dei rappresentanti degli studenti del liceo scientifico Galilei di Ancona a palare della libertà d’espressione in assemblea di istituto. Erano da poco passati i fatti tragici di Charlie Hebdo e Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le ragazze rapite in Siria, erano appena state liberate dalla loro prigionia. Sono arrivata in quella sala gremita di ragazzi, dunque, dopo una settimana di odio mediatico mai vissuta in precedenza: islamofobia mischiata a razzismo e ai peggiori insulti beceri e maschilisti contro le due ragazze. Potrei raccontare molte cose di quella mattinata passata con gli studenti e con la collega giornalista Asmae Dachan. Asmae è una giovane donna di origine siriana, la vedete nella foto accanto a me. E’ nata in Italia e parla e scrive l’italiano come molti di noi professionisti della scrittura vorrebbero fare. Ha un blog in cui quasi quotidianamente racconta del dramma siriano, una tragedia umanitaria le cui dimensioni immani per lo più sfuggono alla coscienza pubblica della nostra cultura e della nostra informazione. Un blog sul quale invito a soffermarsi, perché è uno di quelli che si strutturano per esprimere punti di vista significativi e documentati. Lo segnalo perché il web è il posto in cui le idee si nascondono con una facilità maggiore di quanto riescano ad evidenziarsi, travolte dalla mole di informazioni che circolano giustapposte. Non c’è prima pagina nel web, non c’è gerarchia delle notizie. E dunque, spesso, chi pubblica risponde all’imperativo della visibità offrendo la sensazione e l’emozione a tutti i costi, piuttosto che l’analisi pacata dei problemi e della ragione dei fatti. Non è così per Asmae.

La domenica precedente all’incontro del liceo ero andata alla Moschea della Fratellanza di Ancona, che aveva organizzato un’iniziativa a porte aperte, e in entrambe le occasioni il messaggio forte e chiaro che Asmae ha lanciato è stato che l’islam non c’entra niente con l’Isis. Anche per l’islam, come per il cristianesimo, chi uccide in nome della religione è un bestemmiatore. In moschea, poi, Asmae aveva espresso un concetto molto interessante: noi siamo cittadini e al tempo stesso ospiti.

Lo trovo importante, perché presuppone un concetto moderno e complesso di uguaglianza e di convivenza, che marca anche le differenze, quindi le distanze, e attribuisce loro un ruolo preciso. Credo che la platea giusta per prendere coscienza di ciò sia proprio quella dei più giovani, dove la differenza non è percepita in modo negativo, nonostante le spinte uniformanti dell’età, che rispondono al bisogno psicologico di sentirsi, per la prima volta  nella vita, parte di un tutto che va al di là del nucleo ristretto della famiglia. Ricordo, ad esempio, che quando aspettavo il secondo figlio la mia primogenita mi propose di chiamarlo con il nome albanese di un suo compagno della scuola materna, un nome che a me suonova singolare, ma che lei percepiva come normale perché faceva parte del suo quotidiano. E così, quando alla Moschea della Fratellanza di Ancona ha preso la parola una giovane di quindici o sedici anni, ho distolto per un attimo lo sguardo dalla sua figura e, dimenticando che indossava il velo, ho sentito le parole di una ragazza che avrebbe potuto tranquillamente essere mia figlia o una sua amica.

Poi, prima di cominciare l’incontro con i ragazzi del Galilei, Asmae mi ha detto una cosa che mi ha toccato il cuore: “Mia sorella è sepolta qui, al cimitero delle Tavernelle”. E che cos’è la terra alla quale senti di appartenere se non quella in cui, alla fine, seppellisci i tuoi cari? Sono la terra e il quotidiano i segni più profondi della nostra uguaglianza. Ma lo è anche la memoria. Quasi ognuno di noi, ad esempio, ha memoria di nonni e parenti emigrati in terre straniere, dove la gente del posto spesso non li voleva, o li considerava “minori”, perché diversi. Visti da qui, però, questi antenati sono i nostri eroi, quelli che hanno permesso alle nostre famiglie di essere oggi ciò che sono, di non estinguersi quando erano troppo povere, di trovare una speranza di rinascita dopo guerre che ci avevano decimato nei corpi e nello spirito.

Poi ci sono le diversità, che non sempre e non immediatamente portano ricchezza o valore aggiunto, perché a volte sono ingombranti, spesso incomprensibili le une alle altre. E c’è anche di più. Quando succedono fatti come l’attentato a Charlie Hebdo, o le decapitazioni dell’Isis, il cui portato simbolico arriva addirittura a superare la già immane tragicità dell’accaduto in sé, la logica del terrore prende il sopravvento sulla ragione ed è facile che il diverso sia identificato con il colpevole. Non è un caso se nelle ultime settimane sui social network, che sono lo specchio dei nostri umori collettivi, è esplosa la miccia di innumerevoli fobie e intolleranze, razziali, religiose, ideologiche. Mai nella storia come in queste settimane la parola scritta, che è, per sua natura, più pensata e moderata di quella parlata, si è sbilanciata verso l’eccesso con un impatto sociale così ampio. La strategia che ci ha vinto è stata quella del clamore, che ha suscitato terrore. Credo sia fisiologico, di fronte a eventi di tale portata. E’ stato come prendere una bastonata in faccia. Dopo c’è un momento in cui sei stordito. Poi però ti devi curare, contare i danni, rimediarli fin dove è possibile e riprendere a vivere. Uscendo dalla metafora, il rischio è che, se non riprendiamo a usare la ragione dopo l’emozione, siamo pronti per la dittatura, che non sarà necessariamente di un regime, ma che sicuramente, come è sua natura, avvantaggerà pochi a scapito dei più. E certamente ci toglierà la libertà, prima quella di esprimerci, poi anche quella di pensare e quindi di vivere come vorremmo.

Nel vedere tanti ragazzi riuniti in assemblea, giovani abituati alla velocità del web, alla sintesi estrema, all’on-off del loro essere nativi digitali, all’applauso facile del “mi piace”-“non mi piace”- “condividi”, mi si è aperto il cuore quando ho capito che, tenendo alto il livello del dibattito, arrivavano domande e considerazioni sensate e di senso, che forse quando io avevo la loro età non avrei mai fatto. Li vedo un po’ persi, ogni giorno li scopro fragili, ma riconosco in loro competenze più profonde di quelle che avevamo noi e un senso civico che dovrebbe fare invidia agli adulti. Sono, ad esempio, ragazzi che amano, curano e promuovono la loro scuola, che gestiscono i loro spazi con serietà e passione, sia nei momenti impegnati, come l’incontro a cui ho partecipato io, sia in quelli più leggeri e giocosi.  In quell’assemblea mi è sembrato di vedere giovani che facevano esperimenti di “res publica”. Credo quindi di avere sulle spalle, insieme con i miei coetanei, una bella serie di responsabilità: preservare quanto è rimasto in termini di democrazia e di libertà, tornare a curare la cultura e smetterla di dire con i fatti, oltre che con le parole, che l’impegno e lo studio non sono importanti, praticare il rispetto e coltivare la bellezza, nel privato come nel pubblico, non abbandonare la memoria di ciò che siamo stati. Dovremo consegnare loro tutto questo. Pensiamo a salvare il salvabile, perché c’è qualcosa che mi dice che ne faranno un uso migliore del nostro.

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Josh Stearns

The five W’s of journalism remain a cornerstone of newsgathering today, but I have been increasingly thinking about five C’s as well: Context, Conversation, Curation, Community and Collaboration.

Below I try to define each, with particular attention to how they intersect, and I link to one good piece of writing on the topic.

Nothing about this is supposed to be comprehensive, nor is it particularly original, it’s just a list of the things I’m thinking about right now and an invitation for you to add your thoughts. 

View original post 399 altre parole

172040_10150148881312317_1641360_oConsideriamolo un anconetano temporary. Si è trasferito in città per motivi di lavoro nel 2004, dopo il periodo universitario a Macerata. Io l’ho conosciuto un sabato mattina, quando mi è venuto a trovare in ufficio, magrissimo, con il marsupio allacciato in vita, il sorriso stampato in faccia, e un carico di lavoro non da poco. Si dovevano organizzare i campionati europei master di atletica leggera al Palaindoor, impianto unico in Europa, all’epoca nuovo quasi di zecca per la città, pronto per ospitare questo evento che doveva essere memorabile. Io all’ufficio stampa del Comune, lui a quello della Fidal Marche, abbiamo cominciato a lavorare, giorno dopo giorno, passo dopo passo, con allegria, con pazienza e a volte sclerando un po’. Sempre attenti alla qualità di ciò che facevamo. E’ quest’ultimo aspetto quello che ricordo con più piacere, e con un po’ di nostalgia, di quel periodo.

Ho capito subito che si volava alto. Inutile dire che è stato così, per questo e per molti altri eventi, altrimenti Alessio Giovannini, oggi in forze all’ufficio stampa della Federazione italiana di atletica leggera a Roma, non starebbe qui, tra quelli di cui voglio raccontare un pezzo di storia, quella che li incrocia, in modo interessante, con la città di Ancona.

Questa è un’intervista a quattro mani, perché sia io sia lui scriviamo per mestiere. E siamo abituati a unire le forze, quando si può.

La tua prima impressione di Ancona quando sei arrivato? Ancona comunque non era un mondo altro per me, visto che per ragioni varie – come molti marchigiani, credo – fin da piccolo la frequentavo più o meno saltuariamente. L’impressione del mio approdo “domiciliare” è stata quella di un posto molto tranquillo, comodamente incastrato nella sua “routine”, ma che ai “non-anconetani” non mostra subito il suo lato migliore.

Sei andato a vivere a Pietralacroce, quartiere storico e vip. È stata una scelta casuale?
Pura casualità merito di un’agenzia immobiliare che in due giorni mi ha scovato la bella casetta dove ho sono stato per 5 anni. Solo dopo ho scoperto di abitare nel cosidetto “quartiere della fettina”. In realtà per me comune mortale precario, vista la zona, era stata proprio un’ottima occasione e sinceramente ora che vivo a Roma rimpiango parecchio quel canone d’affitto…

Hai inaugurato il Palaindoor, impianto quasi unico in Europa, e poi l’hai visto vivere. Occasioni colte? Occasioni perse?
Ho visto spuntare su il Palaindoor dalla prima pietra. Quando a molti sembrava un’idea folle. Oggi è un impianto che è un tesoro dell’atletica italiana, senza il quale negli ultimi anni sarebbe stato davvero problematico svolgere attività al coperto. Ancona a livello organizzativo si è fatta trovare sempre pronta e all’altezza della situazione. Forse per altri aspetti è mancata un po’ di visione “destruttur-attiva” dell’impianto che non può essere visto come una semplice pista d’atletica sotto un tetto. Ci sono potenzialità da esplorare. E’ difficile, ma bisognerebbe provarci.

Al Palaindor Ancona ha vissuto l’avventura degli europei master di atletica nel 2009. Ce li siamo meritati?
Sicuramente ce li siamo sudati. Sono stati un grande evento, oltre l’aspetto prettamente agonistico. In giro per l’Europa ancora ce lo riconoscono, perchè Ancona2009 ha creato un nuovo modello organizzativo per questo genere di manifestazioni. Tant’è che due anni fa la Federazione Europea avrebbe voluto che la rassegna continentale tornasse nel capoluogo dorico. Il rammarico che, a distanza di tempo, ancora mi resta è che una certa parte della città (malgrado dell’evento si fosse parlato a lungo a partire dal 2006!!!) si fosse accorta di queste 6.000 persone in arrivo da tutta Europa solo quando tutto era ormai già partito. Peccato.

Quando vivevi qui a cosa ti eri affezionato? In che cosa ti riconoscevi?
Mi ero affezionato soprattutto alle persone, anzi agli amici, tantissimi, che qui ho trovato. E poi la familiarità di certi posti: il Viale della Vittoria, Piazza del Papa, San Ciriaco e, quattro passi più in là, Portonovo. Ci torno sempre volentieri. Mi riconosco nella “discrezione” che appartiene al carattere di questa città e delle Marche tutte, nel suo essere inizialmente “guardingo” per poi mostrare il lato più tenero che sta sotto il guscio testardo del “mosciolo”.

Ti manca qualcosa di Ancona?
Non sono un fanatico del mare, ma ad Ancona mi piaceva molto l’idea di affacciarmi o di fare un semplice giro per trovarmelo di fronte in un attimo. Quando c’è burrasca poi, visto dal Passetto, è ancora più divertente.

Com’è, vista da lontano?
E’ la città del tempo lento. Nel bene e nel male del significato di questa espressione. Magari con la giusta sferzata, il motore cambierebbe marcia. Ancona se lo merita. Perché è il capoluogo della Regione nella quale sono fiero di essere nato. Perchè è una città piena di tesori d’arte e di storia che non tutti conoscono. Perchè anche la tradizione è un patrimonio purchè non resti impolverato.

Torneresti?
Chi lo sa?

Mi fai un #twitAncona su Twitter?
OK: #twitAncona è bello anzi bullo un bel po’! 🙂

Conversazione con André Martinet
André Martinet/1 Communication is our basic relevancy
André Martinet/2 Language articulates what we feel into a succession of items
André Martinet/3 How to describe a language
André Martinet/4 Choosing words
André Martinet/5 Amalgamations

From an interdisciplinary point of view, what is your opinion about the role of linguistics in the analysis of human communication?

After all, we start studying languages, but of course we have to remember that languages are not the only systems. There are other systems than languages for communication. It doesn’t say communication but that’s what it means. And, why not start from that? So, fine, but as a matter of fact, people started studying languages before they could imagine or think of other systems and usually it’s in relationship with linguistics, with languages, that they invent other systems. If, for example, people on a ship want to communicate with another ship, they would use language, but they can’t. So they have to find a way out with signals and flags, etc. There you have your semiotics.

L’Oxford English Dictionary lo considera una voce e gli attribuisce il significato di to heart. Un disegno dunque, quello del cuore, entra a far parte a tutti gli effetti del dizionario e presumibilmente è il primo di una serie piuttosto lunga.
Dovremo rivedere la nostra cultura della catalogazione della lingua? E, ancora di più, come è cambiato il rapporto tra segno e significato?
Ne parla qui Francesca Chiusaroli, nellla sezione “Che carattere” del blog www.scritturebrevi.it .
Vi consiglio vivamente la lettura.