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Intervento al corso di formazione Odg Marche

Grottammare – Teatro dell’Arancio – 29/05/2015

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Ci sono ancora molti, candidati e anche sostenitori, che si fanno vivi sui social network solo quando è ora di chiedere i voti. In questo periodo ad esempio, prima delle elezioni amministrative regionali delle Marche, si moltiplicano su Facebook gli inviti “sospetti”.

Non funziona più. L’effetto novità è finito. E’ inutile comparire su un social con scopi evidentemente interessati e tempestare per un mese il prossimo di pensieri più o meno originali, di buoni propositi, o con la cronaca dettagliata delle fitte giornate del candidato, per poi scomparire a urne scrutinate. Starci non è obbligatorio. Prendere in giro chi dovrebbe votarti non è carino e di sicuro non aiuta a raggiungere l’obiettivo. E’ una questione di reputazione, che si costruisce col tempo, mettendoci la faccia giorno dopo giorno, coltivando le relazioni, partecipando ai dibattiti, rispondendo alle domande, rendendo conto quotidianamente delle proprie azioni. E’ come nella piazza reale: la gente si accorge se sei finto o sincero, se sei capitato lì per caso, se comunichi onestamente o fai solo propaganda. E in base a come ti percepisce ti attribuisce o ti toglie credibilità.

Il questa piazza virtuale si può, dunque, scegliere di scendere oppure no, come in tutte le piazze del mondo, ma il punto è che la presenza sui social network oggi può pagare moltissimo in termini di visibilità (è stato calcolato che una notizia di media criticità raggiunge in quattro ore un numero di contatti pari ai lettori giornalieri dell’edizione stampata di un quotidiano come La Repubblica), e quindi è comprensibile che anche chi non li frequenta mai (o non lo fa assiduamente) non voglia perdersi l’occasione di sfruttare un palcoscenico potenzialmente così redditizio. Allora bisogna almeno seguire alcune regole, se non altro quelle dettate dal buonsenso.

In primo luogo è opportuno avere bene chiara la distinzione tra pubblico e privato. Su Facebook si possono aprire pagine personali oppure pubbliche. Nel caso della pubblicità elettorale è giusto che sia chiara la finalità della pagina, cosa che, peraltro, la legge rende obbligatoria per tutti i casi di pubblicità nei media tradizionali. La trasparenza è dunque una buona prassi anche per i social network, quindi è preferibile, e più elegante, che i candidati scelgano la strada della pagina pubblica dichiarandone esplicitamente la finalità elettorale. In questo modo, piuttosto che chiedere e promettere un’amicizia (quella delle pagine private), che già di per sé è, a volte, sin troppo virtuale, si possono invitare le persone ad apporre il loro “mi piace” con consapevolezza. E questo è senza dubbio un atteggiamento più rispettoso nei confronti dei potenziali elettori. Gli utenti dei social ormai sono disincantati, oltre che iper bombardati da ogni tipo di post. Per essere “interessanti”, e quindi seguiti, è meglio essere chiari, negli intenti e con i messaggi. Non è vero che la verità fa sempre male. Qui, al contrario, non può che fare bene.

blogSe hai un blog devi necessariamente tenerlo aggiornato con pubblicazioni a cadenza regolare? Deve assomigliare di più a un giornale, o a un social network, oppure la continuità non è rilevante?

E’ una domanda che mi pongo perché tendo ad adottare la soluzione della discontinuità, ma in essa trovo alcuni elementi negativi. Se uno per caso, ad esempio, capita sul mio blog e vede che l’ultimo articolo è datato un anno fa, considererà questa pagina come affidabile? Al contrario, se l’ultimo post della pagina non è così interessante, ma è breve, veloce, ed esprime idee o semplici domande di qualche interesse, non sarà spinto a proseguire, a ritroso, nella lettura?

Torno a #scritturebrevi e ci associo, ancora una volta, il concetto di #segmenti. La scrittura del web, soprattutto dopo l’evoluzione dei social, possiede questa potenzialità in più: anche una nota veloce ha dignità di pubblicazione e, se non trova posto su facebook e su twitter perché richiede un ambiente più “privato”, che presupponga una precisa scelta di lettura, probabilmente il luogo ideale può essere il blog, che, quindi, è uno strumento di comunicazione e condivisione tuttaltro che superato.

Foto su: http://lullabellz.com/blog/oh-my-blog-hello-were-new-here/

Chi sa fare fa…

Pubblicato: 16 febbraio 2015 in comunicazione
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conferenzaHo visto che ti sei messa a fare la conferenziera… ha commentato un’amica dopo che avevo postato un po’ di foto su facebook che mi ritraevano in una delle occasioni in cui ultimamente ho parlato in pubblico. Devo dire che per me si tratta sempre di esperienze piacevoli e spero sia così, almeno un po’, anche per chi mi ascolta. Ma i prossimi impegni mi mettono più di una preoccupazione.

Condizioni di salute permettendo, visto che mi devo operare a un ginocchio, nei prossimi mesi dovrei tenere alcuni incontri, sulla scrittura dei comunicati stampa, ai corsi di aggiornamento dell’Ordine dei giornalisti. La cosa mi mette un po’ a disagio, perché da quando ho lasciato l’ufficio stampa del Comune di Ancona per fare la responsabile di segreteria dell’assessorato ai Trasporti della Regione Marche, scrivo, sì, pure i comunicati stampa, ma svolgo anche un’attività diversa da quella giornalistica, quindi mi chiedo se alla fine sono proprio io la persona giusta per questo compito. Dunque, pur felice per la fiducia che mi è stata accordata, so che mi sentirò veramente in imbarazzo di fronte a tanti colleghi bravi come e più di me e spero veramente di trovare la formula con cui da questi incontri si possa imparare qualcosa a vicenda.

E’ una bella sfida insegnare agli altri, soprattutto quando si parla di strumenti dei mestieri. Perché, come dice l’adagio, “chi sa fare fa, chi non sa fare insegna”. Io me lo ripeto ogni giorno a mo’ di monito.

asmaeQualche settimana fa ho accettato l’invito dei rappresentanti degli studenti del liceo scientifico Galilei di Ancona a palare della libertà d’espressione in assemblea di istituto. Erano da poco passati i fatti tragici di Charlie Hebdo e Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le ragazze rapite in Siria, erano appena state liberate dalla loro prigionia. Sono arrivata in quella sala gremita di ragazzi, dunque, dopo una settimana di odio mediatico mai vissuta in precedenza: islamofobia mischiata a razzismo e ai peggiori insulti beceri e maschilisti contro le due ragazze. Potrei raccontare molte cose di quella mattinata passata con gli studenti e con la collega giornalista Asmae Dachan. Asmae è una giovane donna di origine siriana, la vedete nella foto accanto a me. E’ nata in Italia e parla e scrive l’italiano come molti di noi professionisti della scrittura vorrebbero fare. Ha un blog in cui quasi quotidianamente racconta del dramma siriano, una tragedia umanitaria le cui dimensioni immani per lo più sfuggono alla coscienza pubblica della nostra cultura e della nostra informazione. Un blog sul quale invito a soffermarsi, perché è uno di quelli che si strutturano per esprimere punti di vista significativi e documentati. Lo segnalo perché il web è il posto in cui le idee si nascondono con una facilità maggiore di quanto riescano ad evidenziarsi, travolte dalla mole di informazioni che circolano giustapposte. Non c’è prima pagina nel web, non c’è gerarchia delle notizie. E dunque, spesso, chi pubblica risponde all’imperativo della visibità offrendo la sensazione e l’emozione a tutti i costi, piuttosto che l’analisi pacata dei problemi e della ragione dei fatti. Non è così per Asmae.

La domenica precedente all’incontro del liceo ero andata alla Moschea della Fratellanza di Ancona, che aveva organizzato un’iniziativa a porte aperte, e in entrambe le occasioni il messaggio forte e chiaro che Asmae ha lanciato è stato che l’islam non c’entra niente con l’Isis. Anche per l’islam, come per il cristianesimo, chi uccide in nome della religione è un bestemmiatore. In moschea, poi, Asmae aveva espresso un concetto molto interessante: noi siamo cittadini e al tempo stesso ospiti.

Lo trovo importante, perché presuppone un concetto moderno e complesso di uguaglianza e di convivenza, che marca anche le differenze, quindi le distanze, e attribuisce loro un ruolo preciso. Credo che la platea giusta per prendere coscienza di ciò sia proprio quella dei più giovani, dove la differenza non è percepita in modo negativo, nonostante le spinte uniformanti dell’età, che rispondono al bisogno psicologico di sentirsi, per la prima volta  nella vita, parte di un tutto che va al di là del nucleo ristretto della famiglia. Ricordo, ad esempio, che quando aspettavo il secondo figlio la mia primogenita mi propose di chiamarlo con il nome albanese di un suo compagno della scuola materna, un nome che a me suonova singolare, ma che lei percepiva come normale perché faceva parte del suo quotidiano. E così, quando alla Moschea della Fratellanza di Ancona ha preso la parola una giovane di quindici o sedici anni, ho distolto per un attimo lo sguardo dalla sua figura e, dimenticando che indossava il velo, ho sentito le parole di una ragazza che avrebbe potuto tranquillamente essere mia figlia o una sua amica.

Poi, prima di cominciare l’incontro con i ragazzi del Galilei, Asmae mi ha detto una cosa che mi ha toccato il cuore: “Mia sorella è sepolta qui, al cimitero delle Tavernelle”. E che cos’è la terra alla quale senti di appartenere se non quella in cui, alla fine, seppellisci i tuoi cari? Sono la terra e il quotidiano i segni più profondi della nostra uguaglianza. Ma lo è anche la memoria. Quasi ognuno di noi, ad esempio, ha memoria di nonni e parenti emigrati in terre straniere, dove la gente del posto spesso non li voleva, o li considerava “minori”, perché diversi. Visti da qui, però, questi antenati sono i nostri eroi, quelli che hanno permesso alle nostre famiglie di essere oggi ciò che sono, di non estinguersi quando erano troppo povere, di trovare una speranza di rinascita dopo guerre che ci avevano decimato nei corpi e nello spirito.

Poi ci sono le diversità, che non sempre e non immediatamente portano ricchezza o valore aggiunto, perché a volte sono ingombranti, spesso incomprensibili le une alle altre. E c’è anche di più. Quando succedono fatti come l’attentato a Charlie Hebdo, o le decapitazioni dell’Isis, il cui portato simbolico arriva addirittura a superare la già immane tragicità dell’accaduto in sé, la logica del terrore prende il sopravvento sulla ragione ed è facile che il diverso sia identificato con il colpevole. Non è un caso se nelle ultime settimane sui social network, che sono lo specchio dei nostri umori collettivi, è esplosa la miccia di innumerevoli fobie e intolleranze, razziali, religiose, ideologiche. Mai nella storia come in queste settimane la parola scritta, che è, per sua natura, più pensata e moderata di quella parlata, si è sbilanciata verso l’eccesso con un impatto sociale così ampio. La strategia che ci ha vinto è stata quella del clamore, che ha suscitato terrore. Credo sia fisiologico, di fronte a eventi di tale portata. E’ stato come prendere una bastonata in faccia. Dopo c’è un momento in cui sei stordito. Poi però ti devi curare, contare i danni, rimediarli fin dove è possibile e riprendere a vivere. Uscendo dalla metafora, il rischio è che, se non riprendiamo a usare la ragione dopo l’emozione, siamo pronti per la dittatura, che non sarà necessariamente di un regime, ma che sicuramente, come è sua natura, avvantaggerà pochi a scapito dei più. E certamente ci toglierà la libertà, prima quella di esprimerci, poi anche quella di pensare e quindi di vivere come vorremmo.

Nel vedere tanti ragazzi riuniti in assemblea, giovani abituati alla velocità del web, alla sintesi estrema, all’on-off del loro essere nativi digitali, all’applauso facile del “mi piace”-“non mi piace”- “condividi”, mi si è aperto il cuore quando ho capito che, tenendo alto il livello del dibattito, arrivavano domande e considerazioni sensate e di senso, che forse quando io avevo la loro età non avrei mai fatto. Li vedo un po’ persi, ogni giorno li scopro fragili, ma riconosco in loro competenze più profonde di quelle che avevamo noi e un senso civico che dovrebbe fare invidia agli adulti. Sono, ad esempio, ragazzi che amano, curano e promuovono la loro scuola, che gestiscono i loro spazi con serietà e passione, sia nei momenti impegnati, come l’incontro a cui ho partecipato io, sia in quelli più leggeri e giocosi.  In quell’assemblea mi è sembrato di vedere giovani che facevano esperimenti di “res publica”. Credo quindi di avere sulle spalle, insieme con i miei coetanei, una bella serie di responsabilità: preservare quanto è rimasto in termini di democrazia e di libertà, tornare a curare la cultura e smetterla di dire con i fatti, oltre che con le parole, che l’impegno e lo studio non sono importanti, praticare il rispetto e coltivare la bellezza, nel privato come nel pubblico, non abbandonare la memoria di ciò che siamo stati. Dovremo consegnare loro tutto questo. Pensiamo a salvare il salvabile, perché c’è qualcosa che mi dice che ne faranno un uso migliore del nostro.

selfie papaOrmai per me è quasi una tradizione l’appuntamento con i corsi di aggiornamento-preparazione all’esame di stato organizzati all’Ifg di Urbino dall’Ordine dei giornalisti delle Marche.

Come riflettevo ieri con i colleghi presenti alla lezione-chiacchierata, che ringrazio per l’interessante scambio di idee, il mio intervento ogni volta ha bisogno di essere ripensato quasi completamente. Se per esempio riproponessi all’uditorio le riflessioni sui social media di appena quattro o cinque anni fa, ci sarebbe tanto da sorridere.

La nuova lezione si intitola: “L’ufficio stampa ai tempi dei non-proprio-media” e quest’ultima espressione l’ho mutuata da un interessante post di Mario Tedeschini Lalli. In una nota del 2012 sul blog Giornalismo d’altri Tedeschini introduce il concetto di fungibilità, traducendo un contributo dell’architetto dell’informazione belga Stijn Debrouwere, che, a proposito del ruolo del giornalismo oggi, afferma: “Le cose non resteranno uguali per sempre e un settore economico non può sopravvivere solo sul proprio capitale simbolico come i grandi discorsi sulla democrazia e il Quarto potere. Se robe che non sono giornalismo intrattengono, informano e facilitano l’azione meglio delle robe che lo sono, non scommetterei sulla prosperità del giornalismo”.

Dunque nelle quattro (!!) ore a me assegnate, dopo un excursus normativo e storico, parto dalla foto che sta in testa al post per sviluppare questo tema, che, visto dalla parte degli uffici stampa, si traduce in una domanda: con chi parliamo adesso?

Ecco i link:

La comunicazione istituzionale lezione completa

La comunicazione istituzionale-1 LEGGI

La comunicazione istituzionale-2 STORIA

La comunicazione istituzionale-3 INTERLOCUTORI

Ho trovato in rete la lista delle trecento parole da usare in italiano, anziché in inglese. L’elenco nasce dal sito nuovoeutile.it di Annamaria Testa, pubblicitaria, consulente e docente. Una prima stesura, scritta da lei, è diventata virale, catalizzando molte condivisioni e oltre quattrocento commenti, così l’autrice l’ha rivista alla luce dei contributi ricevuti e ha raccolto trecento voci.

Interessante è la “conclusione provvisoria” che si trova qui: Testa scrive, tra l’altro, che “nel passaggio dall’inglese all’italiano resta comunque la sensazione di aver perso qualcosa: si capisce tutto, e quel tutto non sembra mai abbastanza”. Ogni parola, dunque, “è un universo mentale” e la sfida della traduzione è complessa, perché bisogna “passare di parola in parola, da una lingua all’altra, portandosi dietro possibilmente il bagaglio di un po’ di senso”.

Questo ci dà della lingua una visione molto più modulata e, per me, affascinante. Quando penso all’invasione dell’inglese nell’italiano non sono spaventata e non sento l’impulso di proteggere né di salvare la mia lingua dallo straniero. La lingua, fin quando è parlata, e quindi anche ascoltata, si preserva da sé. Nessuno oggi ha il bisogno di sostituire la parola “film” con pellicola, o “mouse” con… con che cosa? Non esiste l’equivalente italiano di questa metafora inglese che identifica con un topolino il “dispositivo esterno per il controllo del cursore, costituito da una sorta di scatoletta variamente sagomata, libera di muoversi sul tavolo in ogni direzione, e dotata di sensori che ne percepiscono il movimento trasmettendone gli spostamenti al cursore visibile sul monitor” (Hoepli). Anzi, se si cerca la traduzione on line inglese-italiano, a parte il caso quasi isolato di cui sopra, si scopre che in prevalenza si spiega la parola con un esempio e a volte si usa solo una foto:

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Per non parlare poi dei prestiti inglesi presenti nell’italiano che nel tempo hanno assunto significati completamente diversi rispetto alla lingua d’origine. Molti sanno, ad esempio, che l’abito maschile che in Italia si chiama smoking in inglese è il “dinner jacket” e in inglese d’america il “tuxedo”. “Smoking” nella sua lingua d’origine mantiene il significato di “fumare” o “fumante” e arriva in Italia con un’altra valenza, probabilmente in seguito alla contrazione dell’espressione inglese “smoking jacket” e al colore, nero, dell’indumento che essa indicava, per inciso per nulla mondano, poiché si trattava di una veste da camera per fumatori. Nonostante i tentativi del purismo fascista di trasformarla in “giacchetta da sera”, e a dimostrazione del fatto che la lingua persevera sempre lungo la propria strada a prescindere da qualsiasi imperativo esterno, la giacca elegante italiana ha mantenuto negli anni il nome inglese di smoking, che oggi non è sicuramente percepito come un intruso dagli italofoni, alla stregua di stop, film, file, e-mail e di numerosi altri termini. Nell’uso degli acronimi, inoltre, c’è una ben più marcata e spesso inconsapevole perdita della memoria delle origini: quasi tutti sanno, ad esempio, cosa è il PIN e, poiché ne fanno un uso quotidiano, ne percepiscono il significato, ma ignorano forse che questa sigla indica l’espressione inglese Personal identity number.

Dunque il lungo elenco dei termini inglesi che potrebbero essere sostituiti dall’italiano non desta interesse in termini protezionistici, quanto, semmai, di opportunità ed efficacia comunicativa. Scorrendo le slide (o dovremmo dire “immagini di presentazione”?), da “abstract” a “workshop”, non si può fare a meno di notare che alcune parole sono necessariamente conosciute e usate in alcuni contesti globali: “waiting list” in un aeroporto internazionale è più efficace di lista d’attesa, “size” sull’etichetta di una maglietta prodotta per essere esportata in tutto il mondo evita che la stessa targhetta debba essere, per amore di traduzione, lunga come la maglia alla quale è attaccata.

Ma non si può, parimenti, fare a meno di sentire le stonature: vi sono termini che, non essendo entrati nell’uso comune, disturbano il flusso della comunicazione in quanto il loro significato non è immediatamente percepibile. Dopo aver premesso che al concetto di percezione va attribuita qui una valenza soggettiva (per me sono abbastanza marziani, ad esempio, termini come “body copy” e “cash flow”, che per altri, con esperienza differente dalla mia, potrebbero risultare chiarissimi), si nota che il gruppo di parole potenzialmente “aliene” può essere usato sia per esprimere il loro significato proprio, sia per trasmettere metasignificati, quali la competenza tecnica del soggetto che le usa o una determinata sua volontà di diversificarsi dalla pluralità dei parlanti.

Ognuna di queste parole, dunque, a modo suo, parla e comunica e quindi, come si dice, nessuno le può giudicare. Non si sa quali entreranno nel grande gruppo del linguaggio comune, ma la lista di Annamaria Testa è interessante perché, a ben vedere, è l’istantanea di una strada, lungo la quale corrono le parole, avvicinandosi o allontanandosi dal comune sentire della lingua.