Archivio per la categoria ‘comunicazione’

La violenza. Sta entrando pericolosamente nelle nostre abitudini quotidiane e c’è chi la giustifica con tranquillità, ritenendola una risposta come un’altra a una situazione difficile, a un dissidio, a una incomprensione.

Alcuni giorni fa mi sono trovata in un luogo frequentato da molti bambini, dove è entrata una persona che ne ha picchiata un’altra a causa, sembra, di un diverbio nato tempo prima. Una persona è stata picchiata e pesantemente minacciata di fronte ai ragazzi, anche piccoli. Ma c’è di più: chi doveva ristabilire l’ordine ha affermato con naturalezza che l’episodio ci poteva stare, perché la violenza nasceva da una provocazione (tutta da dimostrare, peraltro). Io non so a voi, ma questo episodio mi sembra quasi più grave del primo: è lo sdoganamento della violenza fisica, è la deriva della convivenza civile.

Spero che sia un episodio circoscritto, frutto di una crisi di nervi nata e cresciuta tra le strade troppo strette di una città troppo di provincia. Ma poi leggo del linciaggio social a Laura Boldrini , l’ennesimo da parte del M5S, e mi rendo conto che il problema non è isolato, che stiamo veramente andando alla deriva, che alla strada del confronto si preferisce la scorciatoia della cancellazione violenta dell’avversario. Vince chi è più forte, chi alza di più la voce, chi minaccia di più, chi è sostenuto dal gruppo più potente o più numeroso. La parola cede il passo alla parolaccia, e sempre più spesso al gesto che ferisce, nel corpo e nell’anima. Non ci frega niente di mostrare la parte cattiva di noi nemmeno ai ragazzi, che impassibili ci guardano e chissà cosa pensano, come elaborano, chi diventeranno dopo aver assistito a questa deriva.

Bisogna leggere, scrivere, parlare, raccontare e conversare, perché le parole devono continuare a occupare il loro spazio. Non possiamo permetterci di far cedere loro un millimetro in più.

“Sono uno di quelli che per capire le cose ha assolutamente bisogno di scriverle» dice Murakami a un certo punto in Norwegian Wood. Capita anche a me la stessa cosa ed è una consolazione che anche un grande la pensi così.

1984: Lo spot più bello di tutti i tempi

di: Antonio Capaldo su http://www.ilmac.net/magazzino/articoli/1984.htm

Quasi tutti gli utenti italiani sono utenti del Macintosh dal 1985, quando queste macchine arrivarono in Italia e quasi nessuno qui conosceva il Mac nel lontano 1984. Ma proprio in quell’anno avvenne il lancio del primo Mac, il mitico 128, così definito per i Kilobyte (Sì, kilobyte, non MegaByte) di Ram che conteneva. L’attesa per questa macchina era tanta perché si riteneva che sarebbe stata la riscossa di Apple dopo che IBM ed i primi clonatori PC le avevano sottratto importanti quote di mercato. Il prodotto era quasi pronto, benché persistessero molti dubbi sulla sua effettiva utilità e sui suoi possibili utilizzi, ma di questo parleremo un’altra volta, quello che vorrei raccontarvi oggi è la storia del filmato commerciale più importante della storia di Apple nonché quello unanimemente considerato il più bello mai creato non solo da Apple, ma da ogni agenzia pubblicitaria, tanto da essere stato giudicato, in una recente ricerca il miglior spot del secolo e scusate se è poco. Ma come è nato questo spot? La mia curiosità è sempre stata notevole anche perché spesso, soprattutto nei siti americani, quando si parlava male degli spot di Apple si richiamava alla mente questo fantomatico e famosissimo, almeno in America, spot, 1984. Dopo lunghe ricerche e letture ho potuto mettere giù una breve storia di questo interessantissimo spot e posso assicurarvi che quello che vedrete se avrete un po’ di pazienza per scaricarvelo, vi ripagherà ampiamente. Tutto cominciò quando Apple chiese alla Chiat/Day, un’agenzia pubblicitaria di approntare uno spot per presentare al mondo il suo nuovissimo prodotto il Macintosh. Recuperando un lavoro precedentemente pensato per l’Apple II (l’antenato del Mac) e rivisitandolo in maniera profonda, la Chiat/Day mise a punto questo progetto che doveva rifarsi al famosissimo, almeno negli USA, libro di George Orwell 1984. In questo libro Orwell presagiva una società in cui un soggetto, denominato Grande Fratello, controllava menti e pensieri di tutte le persone, proprio su questa base partì il progetto dello spot, una giovane ragazza, simboleggiante Apple, irrompeva in una sala dove moltissime persone assistevano in maniera passiva ad un discorso del Grande Fratello; la ragazza cominciava a far roteare il martello che aveva con se e lo lanciava contro lo schermo distruggendolo, a questo punto compare un messaggio: “On January 24th Apple will introduce Macintosh. And you’ll see why 1984 won’t be like 1984” ovvero “Il 24 Gennaio Apple introdurrà Macintosh. E voi vedrete perché il 1984 non sarà come il 1984”. Ma vediamo come e da chi venne realizzato lo spot. Ridley Scott, allora proveniente dai successi di Alien e Blade Runner fu scelto come regista e gli venne assegnato un budget di 900.000$, circa (1 Miliardo e 1/2 al cambio odierno), con il compito di dare vita alla sceneggiatura. Egli accettò con entusiasmo e si mise a ritoccare la sceneggiatura a cominciare proprio dal Grande Fratello, tema centrale del libro di Orwell, cui decise di far pronunciare un discorso, per rafforzare le sensazioni che doveva suscitare il filmato. Proprio sul Grande Fratello e sul suo discorso si sono fatte molte ipotesi, la più accreditata delle quali, benché sia stata sempre negata da Apple e dallo stesso Scott, era che il Grande Fratello rappresentava nient’altro che IBM, il principale concorrente di Apple non solo per dimensione ma anche per modo di agire, più standardizzata la prima, più folle Apple. La sensazione che IBM sia il Grande Fratello è forte basta leggere questo estratto (tradotto): “… Oggi celebriamo il primo, glorioso anniversario della direttiva di purificazione dell’informazione! Noi abbiamo creato…. un giardino di ideologia pura, dove ogni lavoratore può essere al sicuro dai mali della contraddizione e delle verità che confondono”, se il Grande Fratello non è IBM, certo le si avvicina. Scott selezionò attentamente la modella Anya Major per la parte di protagonista grazie soprattutto alla sua capacità di lanciare il martello, abilità indispensabile per girare lo spot. Alla fine il prodotto era pronto e venne presentato prima al consiglio d’amministrazione di Apple e poi ai suoi rappresentanti vendite, ma gli unici che ne furono entusiasti furono Jobs ed in parte Sculley, l’allora presidente di Apple.Si era deciso di cancellare lo spot, ma un po’ l’intervento di Jobs appoggiato, in questo caso da Wozniak che arrivò sino ad offrirsi di pagare la metà della somma necessaria a mandare in onda lo spot e parliamo di 400.000$, un po’ la voglia di rischiare dei responsabili della comunicazione, fece sì che lo spot venisse messo in onda quando previsto, il giorno 22 Gennaio del 1984 durante il terzo quarto della finale del 18° Super Bowl, per inciso la trasmissione più seguita d’America, tra i Washington Redskins ed i Tampa Stadium, per inciso i Redskins vinsero per 38 a 9. L’idea alla base dello spot era rivoluzionaria per quei tempi e proprio per questo motivo 1984 è stato premiato come il miglior Spot del secolo, non più una presentazione di un prodotto, ma una storia in cui il prodotto è solo accennato con fare misterioso con il quale si vuole creare nello spettatore attesa, interesse, desiderio di conoscenza. Beh il risultato fu senz’altro notevole. Immediatamente dopo la conclusione dello spot moltissime persone cominciarono a telefonare ai centralini delle stazioni televisive per chiedere maggiori informazioni sullo spot e su cosa significasse, inoltre nelle settimane seguenti, su tutte le principali reti nazionali e locali, lo spot venne riproposto a più riprese e ne seguirono enormi discussioni che non fecero altro che alimentare la voglia di Mac. Poi il 24 all’assemblea degli azionisti, Apple era già allora un’azienda quotata, venne sqaurciato il velo sul nuovissimo prodotto e le reazioni delle persone furono simili a quelle susseguenti alla visione dello spot. 1984 non significò solo un grandissimo successo per Apple, ma anche da allora sino ad oggi, un modello di riferimento ed un confronto scomodo per qualunque pubblicitario, soprattutto se collegato alla casa di Cupertino. Proprio il confronto con 1984 e soprattutto con i suoi effetti, fa impallidire le orride campagne pubblicitarie della Apple a partire dal grandissimo flop di Lemmings, detto anche 1985, sino all’avvento di Jobs e della sua Think Different. Le pubblicità comparative, con i G3 che tostano il pentium, che tanno clamore hanno suscitato, non sono riuscite nemmeno ad avvicinarsi al clamore suscitato da quello spot, lontano nel tempo eppure così vivo nelle immagini e nella mente di moltissime persone. Apple non ha cambiato solo il modo di fare i computer, ha anche cambiato il modo di fare pubblicità, con un piccolo filmato di 1 minuto, ha mostrato una via da intraprendere, non più mere presentazioni di prodotti, ma puntare sulla marca, sul nome dell’azienda, non a caso Apple è la terza marca più conosciuta negli USA. Potrei raccontarvi ancora molto altro su questo spot, a partire dalla leggenda (falsa) che vuole sia stato trasmesso a pagamento una sola volta quel giorno, per finire con tutti i commenti da parte di tantissimi giornalisti e semplici telespettatori, su quel lungo interminabile minuto, ma credo che più di tante parole potrà la visione di questo filmato. Reperirlo non è stato facile e spero che apprezziate lo sforzo.

Data di pubblicazione: 11-10-1998

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Josh Stearns

The five W’s of journalism remain a cornerstone of newsgathering today, but I have been increasingly thinking about five C’s as well: Context, Conversation, Curation, Community and Collaboration.

Below I try to define each, with particular attention to how they intersect, and I link to one good piece of writing on the topic.

Nothing about this is supposed to be comprehensive, nor is it particularly original, it’s just a list of the things I’m thinking about right now and an invitation for you to add your thoughts. 

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Guarda il video (La Stampa Tv)

Chi l’avrebbe mai pensato che il concetto di riuso sarebbe arrivato fino ai dati della Pubblica Amministrazione, per superare il principio della trasparenza,ormai più che ventennale e consolidato (almeno sulla carta)? Eppure succede.

Il cittadino-padrone di casa della Pa, che dagli anni ’90 vede garantito il suo diritto di accesso alle informazioni, ai documenti e allo stato dei procedimenti della pubblica amministrazione che lo riguardano, oggi vorrebbe diventare un proprietario ancora più “attivo”, che riusa e manipola le informazioni della stessa amministrazione, anche per scopi diversi da quelli strettamente privati, anche per interessi commerciali.

Alla base c’è proprio un diverso concetto di proprietà e, se vogliamo, possiamo dire di essere arrivati sin qui grazie al fatto che negli anni ‘Novanta abbiamo avuto la possibilità di accedere come proprietari nei luoghi della pubblica amministrazione. Un dato, il cui titolare è una Pa, dovrebbe essere rilasciato come dato aperto indifferentemente a tutti i cittadini in quanto l’Ente pubblico non è altro che una rappresentanza dei cittadini che svolge attività volta alla cura degli interessi della collettività*. E non si tratta, qui, della mera affermazione di un principio rivoluzionario, ma della presa d’atto di una tendenza della quale si può cominciare a tracciare un percorso storico: è la storia degli open data, cioè della liberazione dei dati pubblici.

L’inizio è negli Stati Uniti: a dicembre del 2009 Barack Obama, al suo primo mandato alla Casa Bianca, emana la direttiva sull’Open Government che parla di dati aperti, di formati aperti, di servizi di download dal Web, di riuso. Il Governo inaugura anche il portale Data.gov dedicato all’Open Data, sul quale risulta subito evidente che i dati più richiesti e quindi più scaricati sono quelli geografici. In Italia la prima Regione ad adottare una licenza realmente open è il Piemonte: a maggio del 2010 offre una quantità di dati – geografici e non – sul nuovo portale www.dati.piemonte.it . Anche se con un paio d’anni di ritardo rispetto agli Stati Uniti, il Governo Italiano si accorge delle potenzialità dell’Open Data e nell’autunno 2011 lancia il portale Dati.gov, anche se l’iniziativa non è ancora supportata da una legge nazionale. Nell’autunno dello stesso anno partono analoghe iniziative della Regione Emilia Romagna e dell’Istat. Da quel momento in poi alcune altre Regioni emanano leggi e delibere regionali sul tema. Non mancano Province e Comuni virtuosi e i primi a muoversi tra gli enti centrali sono il Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca ed il Ministero della Salute. La legge nazionale arriva in Italia a dicembre 2012 ed è la numero 221, che dedica il comma 9 dell’articolo 9 ai Dati Aperti, introducendo tutti gli elementi fondamentali per l’attuazione: formati, metadati, licenze d’uso, diffusione, riuso, gratuità del dato. La legge stabilisce inoltre l’apertura per default: “I dati e i documenti che le amministrazioni titolari pubblicano, con qualsiasi modalità, senza l’espressa adozione di una licenza di cui all’articolo 2, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 24 gennaio 2006, n. 36, si intendono rilasciati come dati di tipo aperto ai sensi all’articolo 68, comma 3, del presente Codice”. Questa importante definizione inverte di fatto il principio in uso nel diritto d’autore italiano che afferma che, salvo diversa indicazione, tutti i diritti sono riservati. Alla legge 221/2012 si affiancano il D.L. 179/2012 e le norme in materia di trasparenza dell’azione amministrativa e di pubblicazione (D.L. 14 marzo 2013, n. 33, recante “riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”). La prescrizione per le PA è chiaramente orientata alla pubblicazione di dati in formati open e liberamente utilizzabili, salvo casi eccezionali da motivare. In questo senso si leggono anche due puntuali indicazioni dell’Agenda Digitale Europea: la action n. 3 (relativa all’indicazione di aprire i dati per il riuso tra le azioni tese a favorire il mercato unico digitale) e la action n. 85 (relativa all’accesso pubblico alla direttiva sulle informazioni ambientali).

A confermare la scelta italiana il 13 giugno 2013 il Parlamento Europeo ha approvato la revisione della direttiva 2003/98/CE del 17 novembre 2003, relativa al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico (direttiva PSI – Public Sector Information). Con tali modifiche si aumenta notevolmente la possibilità di utilizzare i dati pubblici con una logica tipicamente Open Data.

Intanto negli Stati Uniti il 10 maggio 2013 il presidente Obama approva un ordine esecutivo, approvato dal presidente Obama, nel quale si dispone che tutte le agenzie governative dovranno adottare Open Data interoperabili, “machine readble”.

Anche il G8 (Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Russia, Regno Unito, Stati Uniti e Unione Europea) a giugno 2013 si è espresso a favore dell’Open Data. I membri hanno firmato la Carta Open Data che definisce l’impegno dei Paesi su cinque principi strategici. I membri del G8 hanno anche identificato 14 settori di alto valore per i quali rilasciare dati aperti.

I potenziali riutilizzatori dei Dati Aperti della Pubblica Amministrazione possono essere divisi in due macro-gruppi: coloro che dall’uso di questi dati traggono un beneficio di conoscenza e coloro che ne traggono un beneficio economico. Da un lato si pongono dunque il comune cittadino che attraverso di essi ottiene informazioni utili e controlla il corretto operato della Pubblica Amministrazione, i ricercatori e gli studenti che utilizzano ed elaborano i dati per motivi di studio, i giornalisti che li utilizzano a scopo informativo, le altre Amministrazioni che possono all’occorrenza integrare i propri dati con quelli provenienti da altre fonti pubbliche, senza la necessità di convenzioni ed accordi per il riuso come è successo fino ad oggi. Dall’altro lato si trova un gruppo di utenti che possono usare i dati come facilitazione economica e operativa per il proprio lavoro. Fanno parte di questo gruppo architetti, ingegneri, geometri, geologi, pianificatori, agronomi, e tutti coloro che devono reperire cartografia di base e tematica, di piani e vincoli, dei dati catastali, di sondaggi del sottosuolo), ma anche gli informatici e le aziende che sviluppano software. Quindi l’Open Data non è finalizzato solo alla trasparenza e disponibilità di dati che il cittadino ha contribuito a realizzare pagando le tasse, nonché alla semplificazione delle pratiche tecnico-amministrative, ma anche allo sviluppo economico del mercato, perché sollecita la Pubblica Amministrazione a rilasciare i dati con licenze che consentano il riuso commerciale dei medesimi

Gli Enti che in Italia hanno già reso disponibili Dati Aperti, hanno scelto diverse modalità: dichiarare che tutti i contenuti, compresi i dati e le banche dati, del sito istituzionale sono riutilizzabili con licenza aperta (es. Istat); aprire una sezione del sito istituzionale dedicata ai Dati Aperti (es. Ministero dell’Istruzione Università Ricerca). E’ importante, in ogni caso, che gli Enti stabiliscano un processo virtuoso che consenta di pubblicare dati sempre aggiornati, corretti, esaustivi e di buona qualità. Ciò che è necessario sottolineare, a questo proposito, è la sostanziale differenza fra “disponibilità” ed “apertura” dei dati, che dipende essenzialmente dalla licenza d’uso: per poter essere definita open, quest’ultima deve consentire il più ampio riuso possibile dei dati, anche per finalità commerciali.

La legge 221/2012 stabilisce anche il luogo fisico di pubblicazione: “Le pubbliche amministrazioni pubblicano nel proprio sito Web, all’interno della sezione <Trasparenza, valutazione e merito>, il catalogo dei dati, dei Metadati (descrittori dei dati), e delle relative banche dati in loro possesso ed i regolamenti che ne disciplinano l’esercizio della facoltà di accesso telematico e il riutilizzo”. Al fine di consentire un uso certo, oltre che diffuso e generalizzato e ache una interoperabilità tra i vari sistemi e le varie fonti,  il Metadati di un dataset, oltre a contenerne il titolo, la descrizione ed il formato, deve necessariamente contenere altre informazioni indispensabili al riuso, come ad esempio: il sistema di riferimento adottato, il significato degli attributi, la genealogia del dataset (cioè come e perché è stato generato), il grado di aggiornamento, l’accuratezza, l’esaustività e completezza, l’eventuale certificazione, i riferimenti del gestore, ecc. Sembra però che il concetto di Metadati non sia molto noto in quella parte della Pubblica Amministrazione che non si occupa principalmente di dati geografici. Nella rete sono infatti frequenti i casi di descrizioni insufficienti che rendono spesso inutilizzabili i dataset associati. Una criticità è attualmente rappresentata dalla terminologia utilizzata e dalla diversità fra modelli di dati denominati allo stesso modo. Come già precedentemente detto, è necessario un buon intervento normativo in merito, che consenta di definire vocabolari comuni e denominazioni stabili riferite a modelli standard di dati.

Per rendere riutilizzabile un dataset è necessario prevedere più tipologie di servizi di pubblicazione: servizi di consultazione e stampa dei dati con strumenti appropriati e licenza open; possibilità di scaricare il dato in formati non proprietari con licenza open; servizi di interoperabilità geografica con licenza open; servizi di Linked Open Data con licenza open. Alcuni Enti si stanno federando unificando i cataloghi dei dati. La ricerca sui portali federati avviene per mezzo di un indice comune tra i portali che usano la stessa piattaforma (es. Regione Piemonte, Regione Emilia Romagna, ARPA Piemonte) e non esclude la possibilità di accedere a cataloghi sviluppati su altre piattaforme.

Per la realtà italiana si segnalano i portali Dati.gov e DatiOpen.it.

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*Molte delle informazioni presenti in questo post sono tratte da BIALLO, G. (eds.) (2013) – Dati Geografici Aperti – Istruzioni per l’uso. Associazione OpenGeoData Italia, Roma. www.opengeodata.it

Il primo fu il Comune di Rimini. Lì twitter comparve nel novembre del 2007 come piattaforma ufficiale dell’Amministrazione. E da quel momento ebbe inizio un processo che a oggi sembra inarrestabile, anche se lento e “balcanizzato”, come indica Giovanni Arata nel rapporto #TwitterPa 2012. Il primo incremento davvero sostnziale, però – scrive Arata – si registra soltanto nel 2009: alle 4 antenne fno ad allora presenti se ne aggiungono 44 nuove. Da allora in avanti la crescita prosegue con 68 nuovi profli nel 2010 e poi 84 nel 2011 e 91 nel 2012.

Raffrontando i dati con la crescita complessiva della piattaforma in Italia si nota in primo luogo che al boom di Twitter registrato nell’ultimo anno a livello generale, “i numeri di crescita della PA cinguettante risultano meno eclatanti di quanto non appaia a prima vista”. I profli riconducibili ad enti locali e ministeri a fine 2012 sono infatti in tutto 291, meno dello 0,01% del totale italiano. “In termini assoluti – si legge ancora nella ricerca – a far la parte del leone sono i 236 account appartenenti a Comuni (81,1% del totale), seguiti da Province (12,7%) e Regioni (7%). I Ministeri contano per il 2,8% del totale. E’ però il livello regionale quello che fa registrare la più elevata intensità di presenze: sono 9 su 20 (45% del totale) le Regioni dotate di un account, con una percentuale che scende al 33,6% per le Province, all’8,6% per i Ministeri e al 2,9% per i Comuni”. In particolare si evidenzia per la Pa una crescita delle percentuali relative alla condivisione di informazioni di pubblica utilità, a bandi e documenti, ad eventi e multimedia, al livetweeting, alle funzioni dell’Urp. Diminuisce invece negli anni la percentuale di antenne aperte ma vuote, mantenute private dai gestori e degli account che usano le bacheche istituzionali per comunicazioni politiche.

La geografia di Twitter ci dice che il nord del Paese è il più popolato di antenne, con 143 presidii (116 Comuni, 21 Province, 7 Regioni) e tre delle quattro realtà regionali più dinamiche (Lombardia, Piemonte e Veneto). Nel Sud e nell’Italia Centrale alla fine del 2012 si contavano rispettivamente 86 e 54 antenne, con la segnalazione di tre eccellenze: Toscana, Campania e Sardegna. Nel suo studio Arata individua poi una serie di “distretti cinguettanti”, cioè “nuvole di profili (pubblici n.d.r.) Twitter”, addensate in diverse aree del paese: il comprensorio di Torino città metropolitana, quelli di Sassari e Cagliari, la cintura forentina, la zona circostante Milano, la via Emilia, il Veneto e la provincia di Bari. Nuvole probabilmente generate dalla presenza di antenne particolarmente dinamiche o attive da più tempo, che funzionano da hub per la diffusione di analoghe strategie comunicative nel territorio circostante.

L’analisi individua inoltre i contenuti principali dei Twitter della Pa: condivisione di informazioni di pubblica utilità (viabilità, news locali, meteo scioperi), praticata dall’88% delle antenne; segnalazione di eventi (80,1%); rilancio di bandi, ordinanze e documentazione pubblica di rilievo (45%). Si registrano inoltre 57 casi (su 291)  in cui sull’account passano messaggi collocabili al confine tra comunicazione istituzionale e comunicazione politica, “mediante i quali si dà conto di attività e dichiarazioni dei politici non sempre pertinenti rispetto all’attività dell’ufficio”.

“Accanto alle fattispecie appena descritte – si legge ancora – che configurano di fatto l’account Twitter come un’estensione digitale dello sportello fsico, si vanno però affermando anche altre modalità di impiego più generative. E’ il caso ad esempio della condivisione di immagini e video praticata da quasi metà delle amministrazioni censite (43%), ma anche di altre pratiche più innovative (gestione di segnalazioni dei cittadini, livetweeting di Consigli, realizzazione di webTG. (…) Livetweeting, URP online e streaming sono appannaggio rispettivamente di 14 amministrazioni grandi, 9 medie, 4 medio- piccole e soltanto una piccola. Quanto alle bacheche vuote, la loro incidenza decresce al crescere delle dimensioni degli enti- e anche gli account privati sono concentrati nelle realtà più piccole”.

I profli delle amministrazioni italiane su Twitter non risultano, inoltre, sempre facilmente riconoscibili: “Tra i diversi fattori che concorrono a tale stato di cose, il primo e più incidente è senz’altro l’imprecisione delle descrizioni poste a corredo degli account. Elementi come l’indicazione dell’uffcio responsabile, il richiamo all’indirizzo fisico dell’ente o l’impiego di testi come “Proflo uffciale di”, che consentirebbero una più semplice ed immediata identificazione dell’antenna, sono spesso omesse dai redattori”.

E’ ancora molto incerto e frammentato, in aggiunta, il panorama dei responsabili della gestione e della creazione dell’account. E’ in questo contesto che l’autore della ricerca parla di balcanizzazione del social network nella Pa: “In effetti, le attività di attivazione e presidio degli spazi social cadono al di fuori della giurisdizione formale dei singoli uffici e potrebbero per questo essere avocate a sé da una molteplicità di soggetti all’interno dell’ente. D’altra parte, le scelte effettuate su questo piano sono passibili di generare rifessi signifcativi sull’impostazione generale, sulla linea editoriale, sui rapporti con gli altri uffci dell’Ente e sulla longevità stessa dell’antenna”. La gestione è affidata nei diversi casi all’Ufficio Stampa, alla Comunicazione, alle Redazioni Web, all’URP, agli amministratori eletti, ai Centri elaborazione dati, alle agenzie esterne, a dipendenti presi a prestito da altre unità. Il fenomeno degli amministratori-editor tende a concentrarsi nei centri di piccole dimensioni, mentre nelle realtà più grandi cresce l’incidenza delle strutture specializzate in comunicazione.

 Gli enti locali ed i ministeri presenti su Twitter esibiscono livelli molto variegati anche nell’alfabetizzazione e competenza nell’uso del mezzo. Tale dato emerge con forza dall’esame di dimensioni come l’impiego delle funzionalità di dialogo e tagging, il grado di collaborazione con gli account terzi, la frequenza di aggiornamento, le modalità di integrazione tra Twitter e gli altri spazi digitali dell’Ente. La grammatica di base di twitter, sintetizzabile nell’uso del retweet, dell’hashtag # e della mention @, comincia nel 2012 ad essere applicata in modo più dinamico rispetto al passato, ma permane una preponderanza della funzione autoreferenziale: il 33,3% delle antenne retwitta i contenuti di terzi, il 23,4% del totale si avvale delle @mention e in 123 delle 291 bacheche oggetto di indagine son presenti gli hashtag, che, tra l’altro, crescono con il crescere del livello amministrativo esaminato. Se ne avvale infatti il 38,1% dei profli comunali, contro il 56,7% di quelli provinciali ed il 70% dei regionali. 62,5% è la quota a livello ministeriale. I dati 2012 mostrano però una crescita generalizzata dell’uso di queste funzioni rispetto alla rilevazione 2011: il retweet è più che raddoppiato, l’#hashtag e la @mention sono quasi triplicati. resta tuttavia il fatto che nel 2012 “sono ancora 148 (49,8% del totale) le amministrazioni che utilizzano Twitter esclusivamente come canale broadcast, senza valorizzare alcuna delle funzionalità di dialogo e condivisione offerte dal sistema”.

Quanto all’aggiornamento dei profili, nel 40,5% dei casi Twitter viene aggiornato attraverso l’importazione automatica di contenuti provenienti dal sito uffciale dell’ente, da Facebook o da altri social media (c.d. uso di Twitter come appendice). “Tale approccio – commenta Arata – prevede l’impiego di Twitter come un mero contenitore di risulta, all’interno del quale duplicare in maniera più o meno pedissequa contenuti realizzati altrove, con una forte limitazione delle potenzialità offerte dalla piattaforma in termini di dialogo e propagazione delle informazioni in real time.

Per quanto riguarda infine l’interazione follower-following, il 12,4% delle antenne non segue alcun proflo Twitter esterno, il 14,4% segue tra uno e cinque account, il 33,3% del totale segue tra sei e cinquanta profili], il 15,5% ne segue tra 51 e 100 e le restanti amministrazioni ricevono aggiornamenti da oltre 100 account esterni.

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Il dataset risultante dalla ricerca è disponibile su: http://goo.gl/jrOsT

Novità dell’ultimo anno: i social media entrano definitivamente a far parte del panorama comunicativo degli enti pubblici. Se, con l’affermarsi di Facebook, cinque o sei anni fa si discuteva dell’opportunità o meno di vietarne l’uso ai dipendenti in orario di lavoro, oggi, vista anche la presenza massiccia e generalizzata del popolo del web (e non solo) sulle diverse piattaforme, il dibattito è stato ampiamente superato. A questo punto comincia a delinearsi in modo sempre più netto la riflessione sull’efficacia della comunicazione social nel rapporto con il cittadino e, di pari passo, si sviluppa in quantità e qualità l’uso strutturato dei social nella Pa.

Tra le prime raccolte e interpretazioni di dati italiani sul tema, risultano interessanti il rapporto #TwitterPA 2012 curato da Giovanni Arata, e lo studio sulle Aziende di Promozione Turistica regionali condotto da Vincenzo Cosenza, Social Media Strategist e responsabile della sede romana di BlogMeter, società di analisi delle conversazioni in rete e delle interazioni sui social media.  

L’analisi, come spiega lo stesso Cosenza su Agenda Digitale in un post datato 11 dicembre 2012, “ha preso in considerazione oltre 920.000 interazioni avvenute sulle pagine Facebook e sui profili Twitter delle APT, al fine di individuare le migliori pratiche e i ritardi nella comprensione delle nuove meccaniche di comunicazione. Tre le risultanze principali:

–       il turismo sembra essere un asset di comunicazione molto potente ed efficace per la costruzione della brand identity regionale. Mentre, mediamente, le pagine ufficiali delle regioni risultano poco appealing per il cittadino, quelle gestite dalle APT riescono a generare più coinvolgimento;

–       le APT che riescono a stabilire un legame continuativo con il cittadino/visitatore sono quelle che hanno capito che la gestione dei social media non s’improvvisa, ma necessita di un investimento in risorse umane e finanziarie (spesso hanno un team dedicato e una strategia di comunicazione integrata). Ciò che ancora manca, anche nelle realtà più evolute, è la cultura della misurazione dei risultati, del tracciamento delle attività di comunicazione social;

–       L’uso dei social media è ancora molto promozionale e poco attento al supporto dell’utente. Su Facebook il tasso di risposta ai fan che postano in bacheca è basso. Ciò indica che si stanno perdendo delle grosse opportunità in termini di “Social CRM” ossia di cura del cliente o del prospect nelle fasi pre e post esperienza turistica.  

Nel dettaglio su Facebook, il social network più frequentato dagli italiani (vedi Osservatorio Social Media), è presente l’80% delle Regioni. Sei mesi di osservazione hanno permesso di cogliere lo stadio di evoluzione attuale, riassumibile attraverso una mappa di posizionamento, basata su tre elementi: numero di fan, engagement totale sviluppato (like, commenti, condivisioni, post degli utenti in bacheca), post scritti dal brand.

Il quadrante dei leader è occupato da VisitTrentino, che si contraddistingue per la capacità di coinvolgere i membri della sua community (290.323 interazioni generate sulla pagina dai suoi 61.266 fan), VisitSicily e Tuscany, che invece spiccano per una base di fan molto ampia e comunque piuttosto attiva (rispettivamente, 133.240 e 126.812 fan). Il Trentino ha anche il primato in termini di rapporto tra engagement e base di fan, vale a dire che per ogni mille fan ottiene una media di 52 interazioni sulla pagina.

Mentre la Toscana è quella che riesce a scrivere i post più coinvolgenti per la propria community, in pratica ognuno di essi mediamente riesce a generare 486 interazioni (siano essi semplici “mi piace”, commenti, condivisioni, post spontanei).

Tra gli “Engagers” (quelli che riescono a coinvolgere molto, pur avendo pochi fan) spuntano VisitSardinia (95.737 interazioni totali) e Liguria (59.597 interazioni), mentre al contrario, Südtirol e Puglia Events (dedicato, però, solo agli eventi) hanno un’ampio bacino di fan (rispettivamente 61.157 e 73.172), ma devono ancora capire come stimolarli costantemente (non raggiungono infatti le 30.000 interazioni in un periodo di 6 mesi).

Su Twitter siamo ad uno stadio embrionale. Le APT non hanno trovato la chiave giusta per relazionarsi al proprio pubblico di riferimento. I numeri sono molto più modesti. Turismo Emilia Romagna si segnala per il suo attivismo (851 tweet in un mese) e la capacità di usare bene le grammatiche del social network. In ciò ripagata in termini di menzioni (1.331) e di impression totali (oltre 9 milioni).

Nel quadrante principale troviamo anche VisitTrentino, al secondo posto per menzioni ricevute, e MarcheTurismo, che nell’ultimo mese ha visto aumentare i suoi follower del 22%.

Tra le strategie di content management vincenti si segnalano la pubblicazione di foto evocative, la copertura di eventi, le comunicazioni di servizio, il coinvolgimento degli utenti nella co-gestione della pagina (lo fa VisitTrentino che invita i fan a gestire i contenuti della pagina Facebook per una settimana, adottando la loro immagine come foto profilo ufficiale).

In definitiva le Regioni italiane hanno compreso che l’esperienza turistica passa dalla rete. Ora si tratta di dar seguito a queste attività, che spesso nascono come “campagne” one shot.

E’ necessario impegnare più risorse nella creazione di gruppi di lavoro dedicati in grado non solo di gestire con creatività e continuità una presenza sui social media, ma anche di creare le risorse digitali multilingua cui rimandare. Sembra incredibile, ma la realtà è che molto spesso mancano pagine web, video, audioguide pensate per i visitatori stranieri.

Infine una presenza in rete non può fermarsi alla mera promozione, ma deve essere in grado di rispondere alle richieste dei cittadini/turisti. Oggi invece chi gestisce i social media non è l’URP e quindi non riesce a rispondere compiutamente a causa dei rigidi steccati organizzativi e culturali presenti”.