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Ivy Ledbetter Lee

Ivy Ledbetter Lee

The founder of the profession of Public Relations, Ivy lee, a Georgia gentleman who described himself as a “physician to corporate bodies”, believed that corporations should not conceal the truth from the press and that business leaders should not shun publicity. His principles helped to make American business more public-spirited and humanitarian (Historic Markers Across Georgia)

Le vere e proprie origini della comunicazione pubblica risalgono all’inizio del 1900, in America. Gli eccessi delle grandi aziende, delle compagnie ferroviarie ed elettriche, delle banche e degli altri componenti del mondo dell’industria e della finanza avevano fatto nascere movimenti di protesta e di riforma agli inizi del secolo. Dal 1903 al 1914 molti giornali e quasi tutte le riviste a grande tiratura pubblicarono articoli di denuncia contro i metodi usati dalle aziende per imbrogliare gli azionisti, scaricare perdite sul pubblico, corrompere i pubblici poteri. Diviene pertanto consuetudine, da parte delle grandi aziende, assumere publicity men. Si moltiplicano, così, le ditte di pubblicità.

In questo contesto si afferma il giornalista economico Ivy Lee.

Ivy Ledbetter Lee (Cedartown, 16 luglio 1877 – 9 novembre 1934) è considerato, assieme a Edward Bernays, uno dei padri delle moderne pubbliche relazioni. Avviò la sua carriera come giornalista e stringer per conto di noti periodici quali New York Journal American, New York Times e New York World. Dopo cinque anni nel settore giornalistico, Lee ottenne il suo primo lavoro nel 1903 come direttore pubblicitario per il Citizens Union, organizzazione che appoggiava la candidatura del politico repubblicano Seth Low a sindaco di New York. Pubblicò il libro The Best Administration New York City Ever Had (La migliore amministrazione che New York abbia mai avuto). L’anno seguente accettò un incarico per conto del partito democratico Democratic National Committee. All’interno di questo comitato, strinse dei rapporti col giornalista George Parker, il quale aveva gestito una campagna pubblicitaria per Grover Cleveland durante la sua terza candidatura presidenziale. Nel tardo 1904, i due colleghi fondarono la terza società di pubbliche relazione degli Stati Uniti, la Parker & Lee. La nuova agenzia si vantava di “Precisione, autenticità, e interessi”. La ditta Parker e Lee non arrivò ai quattro anni di vita, ma in seguito Lee sarebbe diventato uno dei più influenti pionieri delle pubbliche relazioni. Egli elaborò ed affermò la sua filosofia nel 1906 nella Declaration of Principles (Dichiarazione dei principi), la prima espressione del concetto che vedeva i professionisti delle relazioni pubbliche come coloro che si assumevano una responsabilità pubblica che si estende oltre gli obblighi verso il cliente. Nello stesso anno, passò alla società ferroviaria Pennsylvania Railroad come assistente del presidente.

La sua filosofia della comunicazione si basava sul principio che per riconquistare la fiducia del pubblico le aziende avrebbero dovuto sciogliere i sigilli, mettere i loro libri contabili a disposizione di tutti e fare appello alla gente comune. La politica del silenzio e del segreto non pagava. Come press agent di una grande azienda produttrice di antracite, dichiarò:

“This is not a secret press bureau. All our work is done in the open. We aim to supply news. This is not an advertising agency. If you think any of our matter ought properly to go to your business office, do not use it. Our matter is accurate. Further details on any subject treated will be supplied promptly, and any editor will be assisted most carefully in verifying directly any statement of fact. … In brief, our plan is frankly, and openly, on behalf of business concerns and public institutions, to supply the press and public of the United States prompt and accurate information concerning subjects which it is of value and interest to the public to know about”.*

La dichiarazione fu fatta nel corso di uno sciopero e il lavoro dei cronisti fu molto semplificato. Sebbene infatti la stampa non fu ammessa nel locale dove si svolgevano le trattative fra aziende e scioperanti, Lee provvide a distribuire comunicati dopo ogni seduta.

Nel 1906, quando era press agent della Pennsylvania Railroad, accadde un incidente ferroviario e lui con un treno speciale, per la prima volta, portò i giornalisti sul luogo dell’incidente e fornì loro ogni tipo di assistenza. L’azienda non aveva mai goduto di un trattamento così favorevole da parte della stampa.

Ivy Lee teorizzò che il lavoro del comuniocatore era quello di far capire l’azienda al pubblico e il pubblico all’azienda e introdusse il termine di publicity, cioè relazioni pubbliche. Fu tra i primi a rendersi conto dell’inutilità della pubblicità, se questa non fosse preceduta e seguita da un comportamento corretto dell’impresa, e a capire che soltanto l’azione poteva costituire un plafond per influenzare la clientela. Vide anche l’importanza di umanizzare il mondo imprenditoriale e non si stancò mai di sottolineare l’importanza del fattore umano.

Uno dei suoi incarichi più importanti fu la collaborazione con il magnate John D. Rockefeller. Nel 1914 si impegnò per scaginarlo dall’accusa di omicidio. Rockefeller aveva assoldato alcuni agenti della Guardia del Colorado per sedare uno sciopero: durante l’assalto al campo degli scioperanti rimasero uccise 20 persone. Lee diffuse una versione modificata dei fatti per coprire Rockefeller. Nel 1919 fondò il suo Ufficio di pubbliche relazioni, Ivy Lee & Associates. Durante la Prima guerra mondiale, Lee lavorò come direttore pubblicitario, e poi come assistente del presidente della Croce Rossa americana.

Ivy Lee morì a causa di un tumore al cervello, il 9 novembre 1934, all’età di 57 anni.

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* “Questo non è un ufficio stampa segreto. Tutto il nostro lavoro è fatto apertamente. Questa non è un’agenzia di pubblicità. Se pensate che qualuna delle nostre occupazioni starebbe meglio all’ufficio commerciale, abbandonatela. Il nostro compito è preciso. Tutti i nuovi dettagli e tutto ciò che trattiamo sarà prontamente comunicato e ogni giornalista sarà assistito con il massimo dell’impegno nella sua verifica personale dello stato delle cose. …Con tutta onestà e chiarezza il nostro piano consiste nel dare alla stampa e al pubblico degli Stati Uniti informazioni accurate e tempestive su quanto il pubblico vuole sapere, tenendo presenti gli interessi tanto delle aziende, quanto delle pubbliche istituzioni”.

Fonti:

Wikipedia

Historic Markers Across Georgia

 

In Italia le due guerre mondiali e il fascismo, nonostante la diffusione dei media di massa, non hanno affrontato in maniera strutturata le problematiche inerenti il diritto ad essere informati, mentre si è sviluppata in modo diverso nei vari momenti storici, la comunicazione per la promozione d’immagine.

Il boom economico degli anni Sessanta determina però cambiamenti sociali profondi: le città crescono e le campagne si svuotano, si sviluppa il consumo di massa, aumenta il benessere nazionale. Il numero degli addetti all’industria supera quelli dell’agricoltura e la classe operaia acquisisce una centralità di tipo politico. Nascono nuovi soggetti collettivi: giovani e donne acquistano una propria identità politica e culturale. Il contenuto dei messaggi comunicati muta. La natura religiosa, che aveva contraddistinto la comunicazione dalle due guerre alla nascita della Repubblica, è superata dal forte processo di laicizzazione della società del benessere e dei consumi. I principi democratici, fortemente minoritari nei primi anni della Repubblica, si diffondono tra la popolazione. La contrapposizione netta tra Dc e Pci si apre al dialogo e i socialisti sono coinvolti nel governo, al fianco dei democristiani. Il pubblico è assai meno influenzabile, è più istruito, esigente e comincia a dare segni di insofferenza nei confronti della gestione delle informazioni da parte dei partiti politici.

Il momento culminante è il 1968. La comunicazione vive allora il suo momento più innovativo. I media hanno carattere autonomo e sono reali motori di sviluppo e promozione dell’intera società. La televisione è il medium più innovativo, ma si aprono nuovi luoghi di dibattito e incontro: le comunità di base, le comuni giovanili, ecc. Il cinema è al culmine del successo, è il medium con maggiore audience . Le riviste si giovano di tecniche di riproduzione e di trasmissione all’avanguardia. I lettori sono cresciuti e la quantità di popolazione analfabeta è minore. Il ciclostile è lo strumento più economico a disposizione dei giovani contestatori. La piazza, infine, è il luogo di diffusione orale per eccellenza: studenti del 68 e del ’77, operai, divorzisti e radicali, sono i maggiori frequentatori.

A partire dagli anni ’70 si sviluppa nel mondo occidentale la Regional Analysis, nata da alcuni studi compiuti presso l’Università di Chicago, che individua nella regione l’unitàdi analisi centrale*.

E’ invece negli ali anni ’80 e ’90 che prende campo il concetto di marketing urbano specifico strumento per la gestione strategica di una città. Diversi sono i settori in cui può essere applicato: la progettazione di beni e servizi urbani; la creazione di incentivi per gli utenti dei servizi offerti; il miglioramento dell’accesso ai servizi urbani; la promozione dei valori e dell’immagine della città per farne conoscere i vantaggi ai potenziali utenti. Fondamentale per il successo di tale politica è la cooperazione dei vari soggetti che, direttamente o indirettamente, sono coinvolti nella gestione della città: l’amministrazione comunale, gli enti pubblici, le società e le imprese private, i cittadini. Ciascuno di tali soggetti deve lavorare congiuntamente agli altri per raggiungere l’obiettivo prestabilito perché una efficiente gestione urbana non può essere realizzata se non tenendo conto degli interessi, dei suggerimenti e degli orientamenti di tutti gli attori coinvolti.

E’ a questo punto che per la pubblica amministrazione diventa necessario utilizzare un linguaggio comprensibile dai vari attori coinvolti, soprattutto dagli eventuali investitori privati, la cui presenza è fondamentale all’interno dei programmi complessi. Di qui, la necessità di introdurre figure professionali specializzate per la promozione dell’ente pubblico, cui è demandato il compito di mobilitare risorse pubbliche di diversa provenienza (regionali, nazionali, europee) e di attrarre risorse e capitali privati **.

Un esempio: Piano di Marketing Urbano della città di La Spezia

La caduta del muro di Berlino segna, e non solo simbolicamente, un nuovo cambio di rotta anche per la comunicazione istituzionale. Il declino del sistema partitico è sicuramente uno degli effetti fondamentali. Cambia la classe politica, cambiano i partiti, ne nascono di nuovi.

Il mondo mediatico è governato dalla Tv. La liberalizzazione dell’etere mette a disposizione nuove infinite possibilità di comunicazione. La Tv stessa diventa protagonista del crollo dei partiti, con lo spettacolo mediatico di Tangentopoli. L’avvento del computer segna definitivamente la svolta nel mondo della comunicazione. Le forze politiche ora accettano il mercato dei voti e concorrono alla corsa mediatica per aggiudicarseli, facendo sempre più spesso uso delle nuove tecnologie. Pubblicità e spettacolo sono due elementi essenziali per comunicare e fare apprezzare il prodotto-partito. A cominciare da Bettino Craxi, sino a Silvio Berlusconi, i leader di partito sono fautori di una politica spettacolo e si circondano di professionisti della comunicazione.

In questo contesto si sviluppa negli anni Novanta il concetto di trasparenza delle amministrazioni pubbliche. Nel 1990 sono due le norme d’interesse in proposito: la legge 142/1990 sulle autonomie locali e la legge 241/1990 sull’innovazione in materia dei procedimenti amministrativi. La legge 142/1990 rappresenta il coronamento del processo di decentramento amministrativo avviato nella metà degli anni Settanta con l’istituzione delle Regioni. Gli argomenti contenuti nella norma, riguardano il diritto all’informazione dei cittadini e le forme di accesso e partecipazione ai procedimenti amministrativi. Le amministrazioni pubbliche assumono, per la prima volta, il ruolo d’impresa. Infatti, dal punto di vista formale, la norma sancisce la distinzione tra funzioni di indirizzo e controllo da quelli di carattere gestionale. Queste ultime in particolar modo, annunciano un’innovazione in merito alla mission istituzionale. È di questo periodo la nascita, per esempio, dell’ufficio per la Trasparenza del comune di Firenze. La legge è di particolare interesse anche per il contributo che dà alla definizione del concetto di territorialità. All’art. 7, commi 3 e 4, la legge affronta, rispettivamente, il concetto di trasparenza e il diritto di accesso agli atti amministrativi. Lo stesso articolo evidenzia come lo scambio di informazioni e il diritto all’informazione sono riconosciuti alla comunità degli individui come modalità di relazione efficace nei confronti dell’ente. Si ha inoltre, in questa legge, il primo contributo del diritto al processo che conduce ad un’interpretazione compiuta della comunicazione pubblica del territorio*.

Fonti:

* Storia e Futuro (Massimo Granchi)

** Wikipedia

milziCominciamo dai soprannomi: il più recente è Indiana Milzi. Il motivo lo trovate qui e se non avete quaranta minuti per guardare questo speciale di E’Tv Marche, trovateli, perché in questa intervista di Maurizio Socci a Giampaolo Milzi, direttore del mensile Urlo, del webzine Fatto & Diritto e collaboratore del Messaggero, c’è molto di Ancona. Anzi, di più. Giampaolo Milzi è un profondo conoscitore della città, soprattutto della città coperta: sotterranei, monumenti sepolti dagli sterpi, tracce storiche sommerse dall’erba. Ascolta, studia, scopre, ritrova, ricostruisce le storie e la storia. Sentirlo parlare di tutto questo è un piacere. Ma chi non lo conosce e legge fino a qui può farsi un’idea sbagliata, quindi è bene introdurre subito il suo soprannome storico: Giamburraska, che è anche la sua firma per gli editoriali di Urlo.

Urlo, appunto: quest’anno compie vent’anni. “Il numero zero – racconta Milzi – è del febbraio 1993 e da marzo ’93 a oggi sono usciti 202 numeri”. Così il giornale è diventato, a suo modo, un pezzo di città, direi il regalo di Milzi alla città, con una identità netta, sia nel vestito sia nei contenuti. E’ in controtendenza già per il formato: dodici o quattordici pagine “grandi” per dare spazio alle immagini e ai contenuti, per contenere le inchieste e gli approfondimenti, che sono la sua vocazione, in una sola pagina. E’ in bianco e nero, con la prima e l’ultima in bianco, nero e magenta: ha un suo carattere, si riconosce, ci mette la faccia. Infatti si caratterizza anche per la scelta precisa dei contenuti: “Non scriviamo le cose di cui già parlano gli altri, a meno che non siano da approfondire. Il taglio è glocal, il non locale collegato al locale, da sempre, da prima ancora che questo concetto diventasse di dominio comune”. In particolare colpiscono gli articoli, lunghi direi per scelta, di quelli che non offrono scorciatoie al lettore e che li leggi solo se ti interessa il contenuto: una storia mai sentita prima, una scoperta, una denuncia, una causa da sostenere. Si direbbe che, in quanto giornale di parte (perché sceglie i suoi argomenti e conduce le sue battaglie), corre il rischio di non essere imparziale, se non fosse poi che da questa palestra sono usciti finora alcuni tra i migliori giornalisti della città. Al momento ci sono almeno tre o quattro bravi colleghi impegnati nelle pagine politiche e culturali dei quotidiani locali. “Bisognerebbe chiedere a loro – butta là Milzi – un’opinione su Urlo”. Già, cosa direbbero?

Giamburraska, dunque, forse nasce ufficialmente nel 1993 e qui posso raccontare solo una piccola parte della sua storia. Per il resto ci vorrebbe più di un post, perché dovrei dire delle sue serate nei locali, nei circoli, al mare, come dj, con la musica, vintage come la sua Vespa TS del ’75 bianca e verde di nome Wispy. E anche di quando, tra l’85 e il ’90, metteva su il rock a Radio Marche Ancona e poi di Radio Studio 24 e Radio Punto 2, ma anche del suo continuo impegno a fianco dell’associazionismo e del volontariato della città, dell’incursione giornalistica al G8 di Genova, dove ha raccolto una delle primissime testimonianze (di un’infermiera volontaria) sulle cause della morte di Carlo Giuliani, “poi trasmessa la sera stessa da Bruno Vespa”, e anche delle sue numerosissime querele, la maggior parte per diffamazione a mezzo stampa, “quasi tutte risolte bene, altrimenti non starei qui a parlare con te”.

Ma torniamo al 1993. “Il ’93 – dice Milzi – è l’anno che segna l’inizio della fine nella qualità dell’informazione. Finisce l’onda lunga degli anni ’80, in cui si ristrutturarono le Tv private e si aprirono nuovi quotidiani. Io ho cominciato come vittima collaterale della Tangentopoli locale: nel gennaio del ’93 ci fu il fallimento delle Edizioni locali di Edoardo Longarini, che portò, tra l’altro, alla chiusura della Gazzetta di Ancona, dove ero diventato professionista, e di Galassia Tv. Di lì la mia scelta di vita: continuare a vivere di questo lavoro facendo il freelance. Così a trent’anni fondai Urlo. Dopo il ’93, con l’era di Internet, al boom della quantità di notizie non ha corrisposto il boom della qualità. Internet, però, ha portato alla rivoluzione della realizzazione del prodotto mediatico di carta stampata, con due aspetti positivi: l’utente a poteva interagire e diventare attore dell’informazione e diventava concreta la possibilità di realizzare prodotti di informazione in autonomia. Nasce qui, infatti, la free press”.  E’ seguendo queste tendenze che Urlo afferma, negli anni, sul campo, la capacità di influenzare l’opinione pubblica: “I nostri temi sono la cultura, il disagio, le devianze, l’ambiente, la sostenibilità e le nuove fonti energetiche, le problematiche giovanili, ma anche la memoria storica e la riappropriazione degli spazi, la democrazia partecipata. Spesso le questioni che poniamo diventano oggetto di dibattito”. E sempre più di frequente l’ideatore di Urlo è interpellato come esperto sulle singole questioni, soprattutto per la conoscenza della città, che da vent’anni racconta nelle pagine del suo giornale.

Come racconteresti la classe politica di Ancona? “La classe politico-istituzionale è stata progressivamente sempre meno all’altezza della situazione. Non abbiamo avuto, fortunatamente, gravi questioni morali, ma inadeguatezza nella capacità amministrativa sì. La carenza di capacità politica è trasversale: l’opposizione non è virtuosa e non c’è la capacità di andare al governo. C’è una carenza di approccio rispetto alla gestione della città, c’è un pensiero chiuso rispetto a questo. Il dibattito sulla vocazione turistica di Ancona, per esempio, è diventato una barzelletta che fa piangere”.

Qui ci sta bene il twit per Ancona, che chiedo a tutti e che veramente non ho chiesto a Milzi, ma  la frase che ho scelto per Twitter è questa: “La bellissima addormentata, narcotizzata, sul golfo, aspetta il principe azzurro”. “Di Ancona ti innamori. Si corre il rischio di generalizzare, però l’anconetano medio è conservatore, poco curioso, tende a vedere il bicchiere mezzo vuoto e per questo ha paura di mettersi in gioco”. Gli anconetani buoni però ci sono, e sono quelli che hanno creato “situazioni interessantissime, ma, secondo il principio base del nemo profeta in patria, rischiano l’isolamento”. E poi, c’è “molto piagnucolio, che deriva dalla disinformazione. L’anconetano spesso si dimentica della possibilità di riempire l’altra metà del bicchiere”.

Cosa c’è in quest’altra metà, quella buona? “C’è la vivacità dell’associazionismo, c’è uno dei rapporti più alti in Italia verde/abitante e, quindi, c’è il Cardeto, che l’ha fatto crescere e che ancora ha molto da valorizzare, c’è la Casa delle Culture, nata dal coordinamento di tante realtà dell’associazionismo locale all’interno di un ex Mattatoio, che però è anche il bicchiere mezzo vuoto, perché è una struttura abbandonata al 90%, c’è una Mole che è rinata ma per la quale ora occorre affrontare la problematica di un utilizzo adeguato, c’è Porta Pia, che ha un destino simile in quanto a destinazione d’uso. Ci sono buon senso dell’accoglienza e una buona qualità della vita, nonostante la carenza nel campo delle manutenzioni”.

E nel bicchiere mezzo vuoto? “Dopo il minimo storico del 1972 (con il terremoto e le sue conseguenze n.d.r.), la città è migliorata sempre, ma bisogna stigmatizzare e denunciare nel contempo la lentezza dei processi. I tempi si allungano in maniera incredibile per qualsiasi tipo di situazione. Ancona è sospesa nel tempo. Sembra che tutto sia immutabile. Per vedere il cambiamento bisogna avere un colpo d’occhio lungo almeno dieci anni. Manca lo spirito del cogliere le opportunità. Siamo all’anno zero per il turismo, per la valorizzazione dei beni culturali e architettonici, per gli incentivi alla ricerca, per le sinergie tra gli enti istituzionali. Ancona è la città degli spazi negati. Nonostante ci sia stata una progressiva riacquisizione, ci sono alcuni illustri caduti sul campo, tipo il parco della Cittadella, dove non si fa più nulla da anni. Ricordo Cittadella Live, con la musica nel parco a partire dal ’94: è sopravvissuta alcuni anni, poi nulla”.

Certo: la musica, Giamburraska e questa città. Che dire? “La musica continua a essere la colonna sonora della mia vita, nonostante il regolamento acustico ad Ancona sia da Medioevo. A Piazza del Papa si impedisce ai locali di fare musica percepita fuori, quando il rumore della gente che chiacchiera nello stesso luogo produce più decibel. E la gente comincia le feste sulla spiaggia di Palombina, per poi terminarle a Falconara, dove si può suonare più a lungo nella notte”.

Non solo, dunque, la Bella addormentata. Abbiamo anche la sindrome di Cenerentola.

English: Columbia University sign in subway st...

Conversazione con André Martinet

Do you think your move to the United States helped you in some way to develop your theory and your personality as a linguist?

Not much, you see, because I went there for something very different. I was more or less connected with the International Auxiliary Languages Association. For some reason I had been interested in that and I was with Vendryes in Paris, who had just become a mamber of a committee for agreement, and appointed by a rich American lady belonging to the Vanderbilt family. She was a very rich woman and she became interested in Esperanto. She talked with me about Esperanto and said: “That’s beautiful, why don’t people accept Esperanto?”.

She went around, she wrote to people asking why they didn’t accept Esperanto. For example, she wrote to Otto Jespersen in Denmark. he had made a language like that and he explained to her that Esperanto had serious drawbacks, which is true, of course. The only advantage of Esperanto is that people know it, know that there is something called in that way, whereas they don’t know the other languages. These people tried to solve the problem and I was involved.

So I went to The Hague and to Brussels etc.. I became interested in it just before the war. Then the war came and after the war those people who had retreated to the United States during it had to come to some sort of conclusion on what was to be done and they invited me to direct the work in New York. So, I went there in teh Summer of ’46 and started to work with them and at the end of the Summer they said: “Could you come back?” and I answered: “Well. I’ll see what I can do with Paris, whether I can leave Paris”.

Finally I got to leave and I went back to America, I got back in february and we settled there with my present wife. She wasn’t my wife yet, but as soon as I got the divorce from my first wife, we married in New York. We were in New York when I got two offers, one coming from London to replace Daniel Jones (he liked me very much and all his younger students, who might have been his successors, insisted on my being candidate). So, I had that offer from London and then at the same time I had another offer from Columbia University, which had been incited by Roman Jakobson, because he had had problems with going to America from Europe during the war: he met a strong resistance on the part of the American linguists. They didn’t want any European to go and… All of them were Bloomfieldians and they didn’t want the Europeans to go there with Saussurians ideas. So, well, they said no. And of course Jakobson was not too happy to have such a nasty recption on their part. So he decided to fill American Universities with Europeans.

That was one of the choice possibilities and he made me a very nice offer: full professor with good salary. You know in America you have three possibilities: assistant professor, associate professor, full professor.

i didn’t know what to do. I would have had a job in France, an offer from London, the other from New York. So, my wife was there, my daughter from my first marriage was there and I said: “Which one do you want? Paris, London or New York?”. They answered “New York!”. Just because the food was terrible. In Paris it was not too good and in London it was terrible. You couldn’t get food in London, whereas in New York you had no problems, or few problems. Theoretically you needed cards for sugar, but you could steal all the sugar you wanted from the pubs!

Well, anyway, that was the situation when I went to New York City and I went there as the result of a kind of pressure exerted by Jakobson in order to grab all the chairs in America in favour of the Europeans. So I was, from the start, branded as a nasty European, pinching desirable chairs in America. That was a disadvantage because to some extent we had to launch a new journal, “Word”, of which I really was the editor from the start, from the second number. Therefore there was a conflict between the “Word” people, who were in general “the Europeans” and the “Language” people, who were “the real Americans”.

Leggi gli altri post dell’intervista:

André Martinet/1 Communication is our basic relevancy

André Martinet/2 Language articulates what we feel into a succession of items

André Martinet/3 How to describe a language

André Martinet/4 Choosing words

André Martinet/5 Amalgamations

André Martinet/6 Semiotics

André Martinet/7 Economy

André Martinet/8 La Societé Internationale de Linguistique fonctionnelle

André Martinet/9 We don’t care about deep structures

André Martinet/10 Focus on Communication

André Martinet/11 Naturaliter Sauxurianus

Conversazione con André Martinet

Ferdinand De Saussure

Ferdinand De Saussure

What brought you in contact with Saussure?

My contacts with Saussure… they were relatively late. I told you about the fact that I invented phonology when I was a kid, but I had to wait until other people gave me the words for expressing what I knew. With Saussure it’s about the same. You see, I had a feeling about language, which more or less coincided with what Saussure had to say.

I was in no need to read Saussure in order to understand what people wrote in the wake of what Saussure had written. So, I don’t think I’ve read the whole of the Cours de linguistique générale before the age of… twenty-two or twenty-three.

Twenty-two is the time when I got my agrégation, that is when I finished my routine work at University and I could think by myself, because in French Universities, in order to get a job, you have to go trough a sort of discipline, in order to study a number of things which you are not very interested in, just because you have to do it. My choice had been English, so I had to pass l’agrégation d’anglais, which is a kind of safety for life. If you get l’agrégation the French State owes you a job, which is very nice. I thought I would get a job abroad, some place, anywhere, and I didn’t do anything. I just waited for people who were interested in found me a job, somewhere in Czechoslovakia or in Berlin or in Moscow, etc…

So, on the 29th September (and school was supposed to begin the 1st of October) I just noticed that I had no job and I didn’t want to carry on living with my mother paying for everything. I decided I had to take advantage of my agrégation. I went to the Ministery of Education and said: “I didn’t ask for a job in August, but now I want a job”. “Oh – they said – we are very sorry, we have very little to offer”… just the day before! “We have a chair of English in the Lycée de Pontivy“, which is a very, very, very small place in Brittany, which happens to have a licée, because Napoleon had decided to make it the military centre of Brittany. And it did last, because Napoleon didn’t last. Pontivy has got just a lycée and nothing else. I went to Pontivy, I got there in time and got the room and the next day I received a letter from the Ministry of Education starting: “Monsieur Martinet, appointed to professor, etc. etc., in the Lycée de Pontivy…”. I said “All right, that’s my nomination” and I put it in my pocket without reading further. And three days later, as I was walking in the street, all of a sudden, I puuled my paper out of my pocket and read trough and it was an invitation to leave Pontivy for another place, to go to Poitiers, which is a much larger place. So, I was just a bit late. I had to cancel all my things.

Well, anyway, that’s the agrègation, but of course for the agrégation of English there was no mention of Linguistics. It was pure pure literature, with twelve authors: all of them pure literary authors. I was very much interested, but that was not my job. I was a linguist. To this day I remember some passages, but I knew very well I was not meant for that. My basic interest was different, so, as soon as I got that safety which the agrégation means, I started reading in linguisitics and this I could do much better in Poitiers than I could have done in poor Pontivy. That was a good promotion and in the following year I got a job in Berlin. I got an appointment in the French University in Berlin, where I just had to work on my thesis.

Raffaele Simone writes that Saussure’s theory is a “metatheory” for all twentieth century linguists. Do you agree with him?

I wouldn’t say so, because he was practically unknown in America. Linguistics in America developed quite independently of Saussure’s influence. When I came to America no one had read Saussure, you see, so he didn’t play a role in my teaching in America. I hadn’t to go trough Saussure in the way I wouldl have done in Europe, so I wouldn’t say so. It’s quite true that on the European scene, with the exception of England, Saussure was the anticipator of the structuralist school, but my linguistics had developed independently of Saussure.

I just met Saussure. Just like I did with the Prague people: I just met them and retained suggestions from them, because, at the age of twenty-two, I couldn’t start inventing words, so I had to have someone to give some leads and those I found in Prague. I came into contact with the Prague people and with Saussure at about he same time.

And I would say at a certain point I knew the Prague pattern before I had made clear what the Saussure pattern was. It came gradually. Therefore Tullio De Mauro writes somewhere* that among present-day linguists I’m the one who is  the best Saussurian. And I think he’s right. I don’t go around quoting Saussure the way people do, but basically it is quite true: I am the man who had been thinking in Saussure’s terms to a large extent before I met Saussure. Therefore, when I met him, I didn’t have to change things.

In other words, I would say, I have always been independent and that is the reason for which some people don’t like me. They don’t, because I do not fit in the picture. They just think I am kind of superior: I’m not, not at all. I know very well that it would have been much better for me, for my career, if I had read the others more than I did and if I had been more accessible, maybe, to other’s people influence. But as a matter of fact, all this had gone so naturally with me, that I was not tempted to change my vision, except in order to receive suggestions, terminological suggestions.

In other words, I didn’t feel I really had to reconsider all the problems from the point of view of the people I read. I just thought that the people I was reading had had interesting hints, which just tallied with what I thought. I don’t mean to say that I’m cleverer than other people: I’m just like that. It has been easier for me todo so. But what is the disadvantage? Throughout my career people have thought that I was kind of haughty and didn’t want to mix with people ant to accept other people’s ideas.

*Martinet 1988, Sintassi generale, VIII: “…uno studioso che, dai suoi esordi, si andava rivelando  naturaliter Sauxurianus, come appunto Martinet, parimenti impegnato nelle analisi concrete descrittive o diacroniche, nella determinazione di leggi e caratteri generali e nella discussione critica delle teorie”.

Leggi gli altri post dell’intervista:

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André Martinet/6 Semiotics

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André Martinet/9 We don’t care about deep structures

André Martinet/10 Focus on Communication

Cos’è la tecnica del cibo cinese? Leggete il twit-racconto qui sotto e lo scoprirete 🙂

#scritturebrevi, non solo un hashtag, ideato e condotto da

Francesca Chiusaroli

Conversazione con André Martinet

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André Martinet/7 Economy

Romàn Jakobsòn (in russo: Рома́н О́сипович Якобсо́н[?]; Mosca, 11 settembre 1896 – Boston, 18 luglio 1982)

Romàn Jakobsòn  – Mosca, 11 settembre 1896 – Boston, 18 luglio 1982

Which were your points of agreement and disagreement with the Prague school?

I wrote to Trubeckoj, I had correspondence with him, not with Jakobson. I didn’t meet those people until 1938, in a meeting in Belgium, where I met Jakobson. Trubeckoj had just died at that time. Jackobson and Trubeckoj were the secretaries of the Linguistic Circle of Prague and Jakobson decided I should succeed Trubeckoj and the Czechs didn’t like it: why should he choose me instead of one of the Czechs? And the Czechs resented it. Therefore I’m not persona grata in Czechoslovakia.

Well, anyway, that’s a side-track. Have you heard about the SILF? Societé Internationale de Linguistique Fonctionnelle. So, we have meetings, every year… now they are every second year. We had one in Bologna, a few years ago, and we then had one in Québec, in Canada, etc.. We don’t want to be doing it too far. We might have had one in Japan, but Japan is too far: people could not afford to pay a trip to Japan. So, that’s one reason why we haven’t had anything in Japan. We had one in Spain, in Denmark, which was a success, but not with the Danes: very few danes were attracted, just because there were so much Hjelmslevians. To be Hjelmslevian was not too bad, but they were Chomskians.